di Marco Merola, giornalista scientifico e fondatore di Adaptation.it
Angelica De Vito e lo status di rifugiato climatico
La crisi climatica morde il pianeta con violenza crescente e se coloro che dovranno lasciare le loro case e le loro terre rese inabitabili da siccità, alluvioni e temperature roventi avranno accoglienza ed aiuto, il merito sarà di una giovane consulente diplomatica di 27 anni. Angelica De Vito, sguardo attento, competenza da vendere e una melodiosa inflessione napoletana nella voce, lavora all’Onu, a New York, e si sta battendo con tutte le sue forze per far riconoscere a livello globale lo status di rifugiato climatico.
Gli “invisibili” del clima vanno tutelati
Il suo racconto parte proprio da qui, da quando, dice, «ho scoperto un vulnus giuridico nel diritto internazionale e ho ritenuto che gli “invisibili” del clima andassero tutelati come oggi vengono tutelati coloro che scappano dalle guerre, dalle violazioni dei diritti umani, dalle epidemie». Secondo le stime, nel 2070 saranno 25 milioni gli esseri umani costretti a migrare per ragioni climatiche e Angelica De Vito da sempre ha lo sguardo rivolto verso gli ultimi della Terra. Quando andava al liceo, a Napoli, era molto impegnata nel volontariato e, appena compiuti i 18 anni, è arrivata per la prima volta nella Grande Mela per seguire alcuni corsi su Diritti umani e Diritto internazionale alla Columbia e alla Fordham University.
Angelica De Vito scopre la passione per le migrazioni climatiche
«Fino alla maggiore età non spiccicavo una parola d’inglese» confessa. «Poi la mia insegnante di lingua, a scuola, mi iscrisse a un corso a mia insaputa e così sono stata messa in condizioni di partire da sola per gli Stati Uniti. È stata un’esperienza esaltante». Qualcosa le era esploso dentro. Si laurea in Giurisprudenza alla Federico II di Napoli, con una tesi su migranti sanitari ed eutanasia, ma prima di completare il corso di laurea nel 2018 vince anche la prestigiosa borsa di studio Fulbright, che avrebbe però tenuto “in caldo” fino al termine dell’università. Nell’anno accademico 2019/2020 inizia il periodo americano: con la Fulbright frequenta un master sul Diritto ambientale alla Pace University di New York, poi ottiene l’internship presso le Nazioni Unite. «Sono stata presa nella Missione permanente del Costa Rica e ho capito subito che occupandomi di migrazioni climatiche avrei potuto ricavarmi una nicchia importante all’interno del Palazzo di vetro. Sentivo di aver fatto già un bel pezzo di strada. Sicuramente molta di più di quanto avessi immaginato da bambina».
Donna in un mondo iper maschile
Angelica De Vito si è concessa il lusso di scegliere il proprio futuro e se lo è andato a prendere. Madre napoletana che insegna diritto e papà architetto, svizzero del Canton Ticino, le hanno trasmesso un interessante mix di geni che si è tradotto in grande creatività e altrettanta sicurezza in se stessa, anche dinanzi al mondo ipermaschile con cui deve confrontarsi quotidianamente. «Non parlo mai della mia vita privata per evitare strumentalizzazioni: il fatto che sia giovane e donna, spiace dirlo, mi espone a continui attacchi. La mia arma è studiare, essere focalizzata sull’obiettivo, senza perdere mai la capacità di ascoltare gli altri».
E un primo obiettivo Angelica lo ha raggiunto: aver contribuito a inserire il Costa Rica tra le Missioni permanenti che hanno presentato un testo per il riconoscimento del diritto umano a un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile. Il testo è stato poi tramutato in Risoluzione dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, nell’ottobre del 2021, e approvato definitivamente dall’Assemblea generale nel luglio 2022. «Questo ha rappresentato solo il primo passo. Io voglio far cambiare l’articolo 1 della Convenzione di Ginevra, alla voce “rifugiati”» chiarisce senza mezzi termini. L’articolo a cui si riferisce è quello che definisce giuridicamente lo status di rifugiato: chi teme persecuzioni nel proprio Paese «per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche». Angelica ha l’obiettivo di aggiungere a questo elenco coloro che devono scappare a causa dei disastri climatici. «Nel 2018 l’1% della Terra è stato dichiarato inabitabile e la quota aumenterà nei prossimi anni. Sono cominciate le lotte tra le tribù, poi verranno conflitti più grandi tra i popoli, non si può stare a guardare. Persino in Italia, dopo le alluvioni delle Marche e di Ischia, abbiamo assistito a importanti fenomeni di migrazione interna. Il clima ormai spinge le persone a muoversi, ad andare a vivere altrove, ma di questo non si parla ancora».
Le missioni nei campi profughi
Angelica ha visitato molti campi profughi, offerto assistenza legale ai migranti in Italia e all’estero, soprattutto nelle Americhe, Caraibi e Cile in particolare. E qualche volta ha rischiato grosso. «In Cile un uomo in metropolitana ha tentato di dare fuoco ai miei capelli: evidentemente dava fastidio il fatto che fossi bionda. Ma, una volta metabolizzato lo shock, sono andata avanti». Un capitolo importante della sua storia è ambientato a Porto Rico. Nel 2021 va a verificare di persona gli effetti dell’uragano Maria che 4 anni prima aveva devastato il Paese e per capire come la gente si fosse adattata a quella situazione, come stesse reagendo. «Mi ero resa conto che quell’uragano non era stato raccontato dai media, volevo capire cosa stava succedendo laggiù. E ho scoperto che i portoricani sono un popolo resiliente, hanno affrontato tutto da soli, senza l’aiuto di nessuno. Oggi lì viene insegnato alle famiglie a cucinare senza gas, nel caso arrivi un altro uragano a sconvolgere le loro vite».
Una storia di adattamento così particolare, così “costruttiva”, meritava un approfondimento. Angelica sbarca munita di telecamera e microfoni e gira un documentario apparso poi su Netflix Usa: il titolo El clima rico gioca sull’assonanza tra il nome del Paese e l’aggettivo “rico” – che in spagnolo vuol dire buono, delizioso – ed è in chiara contrapposizione con quanto era capitato a quella gente. Per uno di quei bizzarri casi della vita, sempre nel 2021, in settembre, anche New York viene spazzata da un uragano: Ida lo avevano chiamato gli scienziati. «Mi trovavo a un concerto in Central Park ma l’appartamento dove abitavo all’epoca, vicino Central Station, è stato colpito in pieno e sventrato» ricorda. «Ho provato sulla mia pelle cosa vuol dire perdere la casa per colpa di un evento climatico catastrofico».
Angelica non si risparmia mai. Quando partecipa a conferenze ed eventi, spesso si trova di fronte coetanei ancora in cerca d’autore. A tutti ripete come un mantra quanto sia importante studiare e sviluppare il senso critico, imparare a pensare “oltre” in un mondo che richiede soluzioni innovative, soprattutto in ambito climatico. Sul finire della nostra chiacchierata squilla il cellulare, lei risponde che sta facendo un’intervista e poi «ma sì, non ti preoccupare». A quel punto confesso di essermi incuriosito. «Era mia madre, mi ha chiesto se ho messo il rossetto. Se solo sapesse in quali condizioni mi sono trovata a viaggiare…».
Gli effetti del climate change: la mostra
Ce li fa vedere la potente mostra fotografica “Africa Blues”, realizzata a Roma da WeWorld. I fotografi Edoardo Delille e Giulia Piermartiri hanno ritratto scene di vita quotidiana e le hanno “sovrapposte” a diapositive che raffigurano gli stessi luoghi drasticamente modificati dal climate change in un futuro non troppo lontano.
C’è la CASA di Márcia Sambo, che potrebbe essere spazzata via dall’acqua. E il campo di manioca di Julienta Noje, che potrebbe trasformarsi in una distesa di pietre. “Africa Blues, Mozambico nel 2100: proiezioni della crisi climatica sui volti di chi la vive ogni giorno” mostra i volti e le storie di chi subisce ogni giorno la profonda trasformazione dei luoghi in cui abita. Il progetto fotografico, fino al 2 aprile all’Orto Botanico di Roma, è stato realizzato da WeWorld (weworld.it) nell’ambito della campagna #ClimateOfChange sul legame tra il cambiamento climatico e le migrazioni (climateofchange.info).
Il mozambico, dove WeWorld è presente con progetti di sviluppo da oltre 20 anni, è tra i Paesi più vulnerabili, specie lungo la costa. E l’Africa, pur contribuendo soltanto al 5% delle emissioni inquinanti, paga il prezzo più alto della crisi: nel 2019 alluvioni, siccità e carestie hanno provocato 2,5 milioni di profughi.