Nella variegata famiglia degli ominidi, i bonobo delle foreste pluviali del Congo sono, con gli scimpanzé, i nostri parenti più prossimi. Oltre a condividere con questi ultimi il 98,7% del Dna umano, quella silhouette antropomorfa, il ciuffo di peli in cima alla testa, le labbra rosa e il sorriso facile ce li rendono anche più affini, senza contare l’insolita vocazione all’altruismo e alla cooperazione che li pone al centro dell’interesse di antropologi e zoologi. Nella società matriarcale e pacifica dei bonobo, però, dove il sesso è un’interazione alla pari che promuove il benessere e abbassa la conflittualità, la coercizione femminile a scopo riproduttivo, tipica dei violentissimi cugini scimpanzé, è stata messa al bando da una sorta di alleanza tra le femmine del gruppo. «Se una di loro viene minacciata da un maschio, emette un grido speciale che richiama le altre: tutte accorrono in sua difesa, indipendentemente dalla relazione che le lega, respingendo il maschio e isolandolo finché non torna a “comportarsi bene”» spiega, ospite del palinsesto di BergamoScienza, Diane L. Rosenfeld, direttrice del Gender Violence Program e docente di Diritto alla Harvard Law School.

Secondo Diane Rosenfeld la violenza di genere non si batte solo con le leggi

Un trascorso prestigioso come prima consigliera senior dell’Ufficio contro la violenza sulle donne presso il Dipartimento di Giustizia e nell’Ufficio del procuratore generale dell’Illinois, Rosenfeld nel 2022 ha pubblicato The Bonobo Sisterhood: Revolution Through Female Alliance (HarperCollins), un trascinante saggio intorno al quale si sta compattando un vero e proprio movimento internazionale. Dopo aver consacrato la vita alla difesa delle donne, maturando un profondo scetticismo sulla possibilità di arginare la violenza di genere esclusivamente attraverso la legge e la politica, la studiosa ha trovato nella prospettiva evolutiva il necessario cambio di paradigma e nel modello di società bonobo la conferma che il patriarcato non è ineluttabile.

Diane Rosenfeld: tra le donne va promossa la sorellanza

Perché le nostre leggi non funzionano contro la violenza maschile?

«In oltre 20 anni di impegno ho sperimentato sul campo una drammatica evidenza: negli Stati Uniti le donne non hanno diritti giuridici che le proteggano davvero dalla violenza patriarcale. Nel resto del mondo le cose non cambiano, lo dice l’Oms: non esistono Paesi in cui la popolazione femminile viva in sicurezza e alla pari con gli uomini. È scandaloso che come società accettiamo che ogni giorno una moltitudine di donne rischi la vita mentre fa la fila davanti ai tribunali per mendicare briciole di protezione, braccialetti elettronici e ordini restrittivi. La prospettiva evoluzionistica indica che i maschi umani hanno sviluppato forme estreme di aggressione, come lo stupro di gruppo e il femminicidio in ambito domestico, che non hanno precedenti tra i parenti primati, strumenti simbolicamente necessari per mantenere l’ordine patriarcale. Un sistema che nel tempo ha cristallizzato consuetudini, leggi e diritti asimmetrici. Io la chiamo “la trappola della brava ragazza”. Possiamo stare al gioco o farla saltare, costruendo un’inossidabile sorellanza».

Non c’è democrazia dove c’è supremazia maschile

«Il concetto di “democrazia patriarcale” è un ossimoro: non può esistere una vera democrazia in una società che, per definizione, si basa sulla supremazia maschile. Ci viene insegnato a sfidare educatamente il sistema, chiedere con garbo un cambiamento invece di pretenderlo da un potere progettato per darci solo le briciole. Il complesso delle leggi non è impostato per garantire diritti alle donne o permetterci di sfidare la violenza sessuale maschile, perché è un’emanazione di questo stesso ordine. Spesso, vengono promulgate leggi buone sulla carta che nei fatti tradiscono le intenzioni del legislatore, oppure sono contestate “perché le donne godono già di quei diritti”, o ancora restano disattese. Altre volte, quando sono applicate, ci mettono in ulteriore pericolo. È una specie di loop. È successo anche in Italia, dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin».

Un caso che suscita ancora clamore.

«Ero qui per un ciclo di conferenze e ricordo anche il femminicidio di Giulia Tramontano, ammazzata dal compagno in gravidanza. In quei mesi vi fu una grande reazione popolare, si invocarono leggi più restrittive, addirittura corsi di educazione all’affettività nelle scuole, che non a caso sono rimasti lettera morta».

La violenza contro le donne è un flagello maschile

Cosa c’è di sbagliato in questo quadro?

«Innanzitutto il modo passivo in cui abbiamo acconsentito a definire il fenomeno “violenza contro le donne”, separando la violenza dalla propria fonte, rappresentandolo come un problema femminile, quando è incontestabilmente un flagello maschile. Perché non abbiamo una risposta istituzionale che allinei la responsabilità con l’autore del reato, invece di aspettarci che ogni donna abusata da chi avrebbe dovuto amarla sia costretta a sradicare tutta la sua vita, la rete di sicurezza, gli amici, il lavoro per nascondersi in un rifugio, sempre che abbia la fortuna di trovare accoglienza? Se la politica, le leggi, i giudici, le forze dell’ordine non vengono in nostro aiuto, dobbiamo correre noi le une in soccorso delle altre, come le bonobo. Che ci conosciamo o meno, che ci piacciamo o ci detestiamo. Che siamo parenti o complete estranee».

Cos’altro si comprende cambiando prospettiva?

«Le travi portanti dell’alleanza uomo-uomo su cui si fonda il patriarcato sono la coercizione sessuale, la violenza e, cosa molto importante, un tacito accordo di non intervento nelle case altrui. Ogni casa è un castello di cui il maschio è re. Ecco cos’è la legge in questa architettura in cui gli uomini sono anche quelli a cui è permesso parlare il linguaggio della violenza, a noi precluso.

Ci viene insegnato che siamo deboli, vulnerabili, che il nostro corpo non ha potenza e perciò abbiamo bisogno della protezione maschile. Per proteggerci da cosa? Dalla violenza di altri uomini.

In questa prospettiva, le donne perdono sempre, perché gli uomini sono anche quelli che decidono chi tra noi è degna di essere protetta, dividendoci, creando gerarchie».

Ognuno di noi può combattere il patriarcato

Come impariamo a difenderci da sole?

«Il patriarcato è un sistema che richiede un rinforzo costante: se riusciamo a disinnescare, trave dopo trave, l’impalcatura su cui si regge, possiamo mettere a punto una risposta migliore per tutto il genere umano. Parlando di autodifesa, i corsi che abbiamo organizzato con alcuni studenti e studentesse hanno rappresentato anche per me, personalmente, una svolta. La prima cosa che impari è che ciascuna di noi ha in sé qualcosa che vale la pena di difendere e proteggere. Questo pensiero e l’apprendimento di una serie di strategie, non solo fisiche, ti insegnano a non avere paura, a guardare i potenziali aggressori negli occhi, mostrando che siamo pronte a tutto per difendere noi stesse, le altre sorelle o chiunque si trovi minacciat*. Perché la sorellanza è inclusiva, non si fonda su una contrapposizione binaria o su una guerra tra generi. Tutt* possono contribuire a mettere in discussione gli ordini socio-politici su cui si fonda il patriarcato. Tutt* sono importanti».