Ascolta Enrica Baricco nel nostro podcast

Scriveva Gabriel García Márquez che gli esseri umani non vengono al mondo sempre il, giorno in cui la madre li dà alla luce, ma ogni volta che la vita li costringe a partorirsi da sé. Enrica Baricco annuisce: anche lei è nata molte volte. Prima, con una certa linearità, come ragazza di una buona famiglia della borghesia torinese, poi architetto e poi mamma. E dopo, quando i giochi sembravano fatti e tutto già sufficientemente definito, attraverso l’uragano imprevedibile di una malattia rara scoperta a sua figlia e il viaggio nel mondo alla rovescia degli ospedali pediatrici, dove a ognuno manca qualcosa e solo mettendo insieme le fragilità di tutti si trova la forza di andare avanti. Da lì, dice, anche quando esci illesa, come lei e sua figlia, non sei più la persona di prima.

A CasaOz lavorano ragazzi con disagi psichici o fisici

«Quando la vita ti abbatte, hai un solo modo di andare avanti: trasformare la sfortuna in potenzialità. Se rilanci, tutto ti sembra più accettabile. Altrimenti l’uragano ti porta via». La sua reazione è stata disegnare una casa dove i bambini malati e le loro famiglie potessero, trovare un senso di normalità mentre tutto sembra sottosopra: diventata realtà nel 2007, si chiama CasaOz e oggi rappresenta uno degli esempi più riusciti di imprenditoria sociale del territorio piemontese. «Cerchiamo di dimostrare che il sociale non è il settore polveroso di un tempo, ma un’industria capace di produrre eccellenza» spiega seduta al tavolo del ristorante nel centro di Torino che di quel progetto è l’evoluzione. Uno spazio che si chiama MagazziniOz e, come tutti i magazzini, contiene tante cose: un ristorante, appunto, una caffetteria, un emporio dove si comprano cose belle. Ma soprattutto un centro di formazione e insieme un approdo nel mondo del lavoro per ragazzi con disabilità. «Volevamo provare ad autofinanziarci. Avremmo potuto vendere pentole, invece abbiamo aperto un ristorante, una caffetteria e un emporio. E abbiamo pensato che fosse bello farci lavorare dei ragazzi fragili. Sono ragazzi con disagi psichici o fisici: non facciamo differenze, cerchiamo di rimettere al mondo chiunque, smontando l’idea che se c’è un fondo sociale le cose siano meno belle e meno buone. Qui non devi venire per farci un favore, ma perché mangi bene e trovi cose belle».

Enrica Baricco e l’educazione sabauda

La sua biografia dice che prima di tutto questo era architetto.

«Da ragazza volevo fare la psicologa, ma a quei tempi la facoltà era solo a Padova e Roma e allora ho ripiegato su Architettura, perché mio padre era geometra e perché era una facoltà scientifica con un’anima umanistica. L’ho fatta con rigore e mi sono anche divertita. È lì che ho imparato a dare forma alle cose che pensavo».

Che educazione ha avuto?

«Classica, seria e molto, molto sabauda. Quella che ti insegna a cavartela, anche tenendo dentro quello che non va. Ho ricevuto grandi stimoli: i miei genitori sono state persone di grande rigore ma di grande intelligenza».

Papà geometra. Mamma, invece?

«Disegnava benissimo, ma per senso di responsabilità verso la famiglia ha messo i disegni nel cassetto e si è dedicata ai figli».

Come regge l’educazione sabauda all’impatto della vita?

«Mi ha aiutata, e qualche volta è stata un peso. Il senso del dovere è servito ad arrivare fin qui, ma noi sabaudi abbiamo in testa questa nuvola grigia e l’entusiasmo fatichiamo a trovarlo. Io però a Torino sto bene: non c’è il cielo azzurro di Napoli, ma hai lo sguardo libero, sull’orizzonte».

Anche i figli sono un progetto architettonico

Quindi diventa architetto. Poi?

«Ho iniziato a progettare case e a fare ricerca all’università per avere uno spazio mentale dove dare sfogo ai pensieri. Poi ho avuto due figli, Elena e Tommaso, e ho fatto i sacrifici di tutte per tenere insieme lavoro e famiglia».

Che mamma è stata?

«Tenendo in braccio mia figlia appena nata, ho capito che non mi interessava più passare tutto il giorno fuori casa. Ho iniziato un part time e mi sono persa il lavoro in cantiere che mi piaceva tantissimo. Quest’anno compio 60 anni, e sono arrivata a pensare che avere il massimo della soddisfazione dalla carriera e il massimo della soddisfazione nella vita di madre non è possibile».

Rimpianti?

«Nessuno. Ho cercato di fare quello che sul momento mi sembrava giusto. Anche i figli sono un progetto architettonico: se metti un mattone dopo l’altro e non molli mai, i risultati li vedi. Non credo a chi dice: “poco tempo ma di qualità”: per me ci vuole tempo, anche un po’ sbagliato. Poi è arrivato l’uragano».

CasaOz è diventata il lavoro di Enrica Baricco

La malattia di sua figlia.

«Aveva 6 anni. La malattia dei bambini è un viaggio di tutti: dei genitori, del fratellino che non ti vede più. Per anni mi sono molto dedicata a Elena e a lui e ho messo in discussione tutto, quello che avevo costruito prima. Lì è tornata a galla la vocazione dello psicologo, il gusto di occuparsi degli altri. CasaOz è nata così».

Per reazione?

«Credo di sì. Molte persone hanno costruito qualcosa di buono dopo aver superato momenti difficili. A noi è andata molto bene: Elena è appena diventata mamma, ma non tutti i bambini di allora ce l’hanno fatta. Quando ne siamo usciti, mi sono detta: ora devi fare qualcosa tu. Ma c’è voluto del tempo per accettare che non fosse solo volontariato: smontare una vita professionale è complicato. Nel 2005 ho cominciato a costruire un pensiero e nel 2007 abbiamo aperto: a quel punto c’era da dar da mangiare alle persone, scaldare i muri, pagare le bollette, dare continuità. E così CasaOz è diventata anche il mio lavoro».

Il nome come l’ha scelto?

«Volevo la parola “casa”, perché è il posto che dà sicurezza. Poi però ci voleva un riferimento ai bambini. Mi sono messa sul letto con i miei figli e abbiamo tirato fuori tutti i loro libri. Quando ho visto Il Mago di Oz si sono accese delle lampadine. L’uragano Dorothy addormentata in braccio all’omino di latta e al leone che, con le loro incertezze e i loro pezzi mancanti, riescono a portarla in un posto sicuro: tutto aveva un senso».

Che cosa succede dentro CasaOz?

«Si cerca di dare alle persone un po’ delle cose che la malattia ti toglie, dimostrare che anche nell’uragano la vita va avanti: il rumore, il chiacchiericcio, la pallina del calcetto, e anche il casino perché non puoi rintanarti in una stanza. C’è gente che viene solo per le attività e famiglie che ci dormono. Qualcuno fa la lavatrice, qualcuno gioca, si fanno dei corsi, attività sportive, compiti: è la quotidianità che cura. Abbiamo attività anche per le mamme, per ricordare che hanno sempre un’identità di cui prendersi cura. La certezza è che lì trovi sempre qualcuno. E anche i nostri ospiti sono di tanti tipi: disagi diversi, malattie diverse, misti come la vita fuori. Dividere per categorie, nel sociale, è un errore».

Come sta in piedi tutta questa organizzazione?

«Come qualsiasi altra azienda e con l’aiuto di chi ci sostiene. Servizi come il nostro sostituiscono in parte le istituzioni nel prendersi cura di una parte di società e lo facciamo scardinando modelli che non funzionano più. Aiutarci è un investimento, non beneficenza: far star bene gli altri ha un ritorno per tutti».

Lei ha mai dei cedimenti? La voglia di dire: «Basta dolore».

«No. Fare del bene fa bene anche a me. Nel nostro piccolo spostiamo delle cose, e in questo trovo la ragione per non tirarmi indietro».

La donazione di cellule staminali per il fratello Alessandro

L’ultima delle sue nuove vite è cominciata un anno e, mezzo fa, donando a suo fratello – Alessandro Baricco – le cellule staminali per la cura contro la leucemia.

«La malattia ogni tanto torna nella mia vita per darmi una spinta. Sapevo che il problema di Sandro mi avrebbe dato dolore, ma ero ben lungi dal pensare che mi avrebbe coinvolta fisicamente. E invece, a un certo punto, è stato detto che la soluzione era il trapianto. Alcuni tra noi familiari abbiamo fatto il test per verificare la compatibilità e io sono risultata quella più compatibile, con valori tra l’altro molto alti».

Che cosa ha pensato?

«La prima reazione è stata la felicità. Poi ho detto: ci risiamo. Dovevo di nuovo farmi forza, fisicamente e psicologicamente. Quella del donatore è un’esperienza fortissima: che una persona dipenda da te, dal tuo coraggio, è una responsabilità enorme, non puoi tirarti indietro. Mi sono detta: e adesso? E come quando si è ammalata Elena, mi sono risposta: e adesso lo facciamo».

Lei come l’ha vissuta?

«Il Covid ha complicato un po’ le cose perché le terapie di preparazione ho dovuto farle, in ospedale, anche per evitare di ammalarmi. Nel letto di fianco a me le persone andavano e venivano, ed è stato un ripasso dei bisogni e dei dolori».

Suo fratello ha scritto: «Enrica era già la mia persona, del cuore, adesso di più». Che rapporto avete?

«Io sono la più piccola, lui quello di mezzo. Siamo stati sempre vicini, i piccoli, con una sorella saggia che vegliava su di noi. Lui ha sempre avuto un atteggiamento di protezione nei miei confronti e ho pensato a come, nella vita, a volte i ruoli si invertono».

Lei crede nel destino?

«Sì. La vita ti porta anche dove vuole lei. Però tu devi fare la tua parte: il modo di ottenere le cose senza fare tutta questa fatica ancora non l’ho trovato».