Ci sono persone la cui vita parte in salita. Ma non demordono, anzi fanno sì che altri in simili difficoltà possano procedere in cordata, non precipitino e puntino in alto. Una di queste è Federico Zullo, nominato Ashoka Fellow 2024. Ashoka Italia è una ong che fa parte dell’Asvis (l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) e gli Ashoka Fellow sono imprenditori sociali che offrono soluzioni innovative per affrontare i problemi più urgenti della società. I motivi di questa onorificenza? La sua attività come fondatore e presidente di Agevolando (agevolando.org), un’associazione che lavora con e per i care leavers, ragazzi in uscita dai percorsi di accoglienza “fuori famiglia”, in uscita cioè da una comunità per minorenni, una casa-famiglia o una famiglia affidataria.

Federico Zullo è stato 9 anni in comunità per minori

Federico Zullo inizia raccontando la sua storia: «Sono nato in un paesino in provincia di Verona, mia mamma aveva allora 17 anni, era tossicodipendente e io sono cresciuto con la nonna. Quando avevo un anno e mezzo, è morto mio nonno. Ero un bambino vivace e la nonna, che pure era una donna eccezionale, non ce la faceva a seguirmi. Col supporto di mia zia, ha chiesto aiuto ai servizi sociali. Era il 1990, avevo 10 anni e sono stato accolto in un istituto a Verona. Lì sono rimasto per 9 anni. Con la mia famiglia non c’è stato uno strappo totale e ogni tanto andavo a casa sia della nonna sia della zia».

Quando è uscito dalla comunità Federico Zullo ha scelto di aiutare altri come lui

Cosa è successo quando è uscito dalla comunità?

«Sono stati gli anni più faticosi: sono rientrato dalla nonna, che però era ormai anziana. Io ero spaesato, in un contesto dove non avevo riferimenti. Dovevo capire cosa fare del futuro. Mi sono iscritto a Lettere, però senza convinzione. Nel frattempo si è presentato mio padre, che non mi aveva riconosciuto alla nascita. Fare i conti con questa novità inaspettata è stato traumatico, ma anche importante. Ero così destabilizzato che ho deciso di cambiare città. Sono andato a Ferrara e mi sono iscritto a Scienza dell’educazione, perché mi balenava in testa un’idea: diventare educatore per restituire l’aiuto che avevo ricevuto. Là ho trovato subito impiego in una comunità. Lavoravo, studiavo e ho incontrato la persona che poi è diventata mia moglie. Ho anche iniziato un percorso di psicoterapia».

La sua idea si è trasformata poi in un vero progetto.

«I ragazzi della comunità in cui lavoravo, una volta maggiorenni, dovevano uscirne. In loro rivedevo la fatica che avevo fatto io, eppure avevo la casa, avevo la nonna, invece molti di loro neanche un tetto. Sapevo che alcuni sarebbero finiti per strada. Tutto l’impegno profuso per aiutarli e proteggerli non poteva essere vanificato a causa di un nuovo “abbandono”».

Una volta maggiorenni, i ragazzi in comunità o case famiglia rischiano di non ricevere più supporti

Perché dovevano lasciare la comunità?

«Perché in Italia a 18 anni sei maggiorenne, autonomo, e gli Enti locali non mettono più a disposizione risorse, o quasi. Mi sono laureato e ho approfondito studi e dati nazionali e internazionali sul tema dei care leavers, coloro che, appunto, perdono sussidi e tutela».

Che storie hanno alle spalle?

«Ci sono quelli, come me, che sono stati allontanati da casa per problematiche familiari. Poi ci sono quelli che arrivano in Italia come minori stranieri non accompagnati. Infine, i minorenni che per problemi con la legge hanno avuto un decreto di sostituzione del carcere minorile all’interno di una comunità. In totale, si tratta di circa 7.000 ragazzi l’anno».

I ragazzi che vivono nelle comunità per minori subiscono molti pregiudizi

Quanto è forte il pregiudizio nei loro confronti?

«Molto. Nella rappresentazione sociale, comunità significa devianza, tossicodipendenza: tale visione viene appiccicata addosso a questi ragazzi anche se loro non hanno nulla a che fare con quei contesti. Inoltre, si pensa che siano persone con problemi, che possono fare poco. In realtà vanno solo aiutati a completare il loro percorso».

Federico Zullo
Alcuni ragazzi durante le attività promosse da Agevolando a Cagliari e Catania (© Agevolando APS)

Quali norme si applicano?

«Puoi godere di una ulteriore tutela sociale se il tribunale, su indicazione degli assistenti sociali, emette un provvedimento di prosieguo amministrativo che ti sostiene fino ai 21 anni. Altrimenti, da maggiorenne non ricevi più un euro. La Regione Sardegna dal 2006 ha una legge per cui accompagna i ragazzi anche fino ai 25 anni con risorse e tutoraggio, ma è l’unica con una norma così strutturata. Poi alcuni Comuni si impegnano a dare a questi giovani un supporto abitativo ed educativo e in qualche caso la famiglia affidataria tiene il ragazzo con sé anche senza contributi».

L’associazione Agevolando fondata da Federico Zullo accende i riflettori su questi problemi e come risolverli

Per cambiare le cose nel 2010 ha fondato Agevolando. Cosa fa questa associazione?

«Oltre ad attivare progetti abitativi e lavorativi, abbiamo creato uno spazio dove i ragazzi con esperienze come la nostra possano incontrarsi per costruire idee da portare alle istituzioni. In più, collaboriamo con gli assistenti sociali, le comunità educative, le case-famiglia e le famiglie affidatarie, affinché il cammino verso l’autonomia dei ragazzi care leavers sia graduale e partecipato. Da quando è nata Agevolando le cose sono migliorate, si sono creati tavoli di lavoro su questi temi e abbiamo contribuito alla promozione di una sperimentazione nazionale».

Di cosa si tratta?

«È un intervento per affrontare un problema con servizi e risorse. Non si copre tutta la popolazione interessata ma un campione, per capire se passare poi dalla sperimentazione a una legge strutturale. Quella che riguarda i care leavers è partita nel 2018 e vorremmo che diventi una legge che garantisca a tutti loro il diritto di essere supportati almeno fino ai 21 anni».

Quei ragazzi hanno tante speranze e non vanno lasciati soli

Prossimi progetti?

«Stiamo cercando di fondare un’associazione europea di care leavers. Quei ragazzi hanno dei sogni, non spezziamoglieli, facciamo sì che vedano che per loro c’è qualcosa oltre il 18esimo anno. Deve diventare una garanzia, un diritto».

Federico, chi le è rimasto della sua famiglia di origine?

«Mamma è morta nel 1993, la nonna nel 2006. Ho ancora mia sorella, che è più giovane, mia zia, le mie tre cugine e mio padre. Lui sta facendo il nonno dei miei bambini (di 7 e 9 anni, ndr). Per me ciò dà un senso a questa figura che è arrivata tardi nella mia vita. Attraverso il percorso di psicoterapia ho ragionato, ho capito, l’ho accettato. E continuo a impegnarmi per chi invece rischia di restare senza niente. Senza nessuno».