«Ho intenzione di usare la mia posizione per dare spazio, al di fuori delle sedi istituzionali, a chi si batte per il rispetto dei diritti umani» aveva dichiarato Francesca Albanese il giorno della nomina, a maggio del 2022. E la sua è una nomina molto particolare: Francesca Albanese, 47 anni, di Ariano Irpino (Av), Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato dal 1967, è la prima donna a ricoprire questo incarico. Giurista e docente, grande conoscitrice della storia mediorientale, specializzata in diritti umani dopo un master presso la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra, ci aiuta qui a capire la questione israelo-palestinese.
Francesca Albanese monitora lo stato dei diritti umani in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza
Partiamo dal suo ruolo. Ci spiega in cosa consiste?
«Quello che ricopro è un incarico onorario e volontario che dura 6 anni (non si può essere rinominati, ndr). Siamo, cioè, esperti tecnici in missione. Quello che ci viene richiesto è di monitorare lo stato dei diritti umani e le violazioni del diritto internazionale che hanno luogo in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza. E di stilare report: a oggi ne ho scritti 4, uno ogni 6 mesi».
È la prima donna in questa carica. Cosa significa?
«Sono la prima donna e la prima donna giovane, che non abbia raggiunto cioè i 60-65 anni. In più, ho un profilo ibrido rispetto ai miei predecessori, che erano accademici “puri e duri”. Da un lato, la loro importante eredità mi ha protetta. Dall’altro, però, ero stufa di sentirmi dire: “Loro cosa farebbero?”. Perché dovevo continuare a pensare a come avrebbero risposto loro? Io sono io. Dovevo far sentire la mia voce ma anche scoprire qual era questa voce, perché non sapevo come si facesse la relatrice sui diritti umani prima di farlo».
A Francesca Albanese è vietato l’ingresso nel territorio palestinese
E com’è questa nuova voce?
«Femminile. Non lavoro solo all’interno delle Nazioni Unite, ma a livello globale, trasversale: parlo con i governi, i parlamentari, i sindacati, le comunità ebraiche e quelle palestinesi, le università. Poi cerco di mantenere una comunicazione attiva con i media per sensibilizzare più gente possibile, perché questa guerra non è più solo un problema specifico di quel territorio ma una crisi globale in cui si rischia di perdere i diritti fondamentali».
Ha dichiarato che Israele da 2 anni le impedisce l’ingresso nel territorio palestinese occupato. Come mai?
«Io dovrei fare 2 visite all’anno, che però Israele mi impedisce perché mi ha dichiarato persona non grata. Lo ha fatto anche con chi mi ha preceduto. È dal 2008, infatti, che un Relatore Speciale delle Nazioni Unite non entra perché Israele non vuole testimoni delle violenze che sta commettendo. Non a caso, ha ucciso quasi 200 persone delle Nazioni Unite e oltre 130 giornalisti palestinesi».
A Gaza sono stati uccisi 35.000 palestinesi
Nel suo ultimo report, Anatomia di un genocidio, presentato il 25 marzo 2024 alle Nazioni Unite, ha parlato di «crimini di guerra» e di «genocidio». Qual è la situazione oggi?
«Drammatica. In questi mesi Israele ha sganciato su Gaza 25.000 tonnellate di esplosivo, l’equivalente di due bombe nucleari, e ucciso oltre 35.000 palestinesi, di cui il 70% sono donne e bambini. Ha tolto acqua, cibo, elettricità, carburante, medicinali, abbattuto 300 scuole e tutte le università. Mancano ancora all’appello 10.000 persone, che non si sa se siano sotto le macerie o in carcere. L’80% della popolazione è stata sfollata con la forza e sono state arrestate più di 9.000 persone. L’intento non è solo uccidere, ma annientare un popolo, togliendogli la capacità di rialzarsi in piedi, di avere un domani».
Lei parla di genocidio. Ci può spiegare cosa significa esattamente?
«La Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 lo ha qualificato come atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. È un crimine gravissimo, per cui non c’è mai la prescrizione e su cui c’è giurisdizione universale, ovvero tutti i tribunali del mondo possono investigare e processare».
Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha detto che bisogna riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti “dal nulla”.
«Il popolo palestinese ha subito 57 anni di oppressione soffocante, dalla Guerra dei sei giorni del 1967. Nel 1947 le Nazioni Unite avevano proposto di dividere la Palestina: 55% agli ebrei, che possedevano solo il 6% di quelle terre, e il 45% ai musulmani e ai cristiani, che costituivano la maggioranza. Scoppia quindi una guerra civile, Israele si costituisce come Stato ebraico e nel 1967 occupa militarmente anche quel 45% dato ai musulmani e ai cristiani che nel frattempo, tra il 1947 e il 1949, era diminuito al 22%. Da quel momento la popolazione vive frammentata, sottoposta alla violenza di una guerra permanente. Ovviamente i reclami del popolo palestinese non possono giustificare gli attacchi atroci di Hamas. Così come quegli attacchi atroci non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese».
Si può arrivare alla pace riconoscendo i diritti di tutti in quella terra
Nel 1994 Arafat e Rabin ebbero il Nobel per la pace, un dialogo sembrava possibile. Era davvero così?
«Gli accordi di Oslo, firmati nel 1993, furono venduti al mondo come l’inizio della pace in Medio Oriente, ma era chiaro che non avrebbero cambiato nulla. Basta leggere il documento per rendersene conto: in nessuna pagina si fa riferimento a uno Stato palestinese. Si parla solo di un’area da gestire autonomamente. La pace è stata un’illusione».
Le potenze mondiali cosa dovrebbero fare?
«Servono un cessate il fuoco immediato, la sospensione degli accordi economici con Israele e l’invio di truppe militari a sostegno del territorio palestinese occupato. Una nuova pace sarebbe possibile riconoscendo i diritti di tutti in quella terra. Poi saranno loro a decidere come vivere, se in uno o in due Stati. Ma bisogna essere umani. L’orrore della guerra comincia quando non si vede più l’altro come essere umano».