Quando racconto la mia storia dico sempre di aver vissuto due vite. La seconda è cominciata qualche anno dopo la nascita di mio figlio: all’epoca ero quella che definireste una madre single, anche se è un termine in cui non mi riconosco, perché semplicemente io e il padre di Pietro abbiamo scelto di restare amici e vivere in case separate. All’epoca lavoravo in teatro e diventai amica di una collega che aveva subìto un abuso in famiglia e dato il figlio in affidamento. È così che ho cominciato a interessarmi agli affidi: attraverso il punto di vista della mia amica, con la quale uscivo nel fine settimana insieme ai nostri bambini. Col tempo, pensando a Pietro che cresceva senza che io potessi seguirlo come avrei voluto e forse non avrebbe mai avuto un fratello, ho realizzato che mi si era presentata l’occasione di cambiare vita. E ho deciso di lasciare il lavoro e provare a diventare madre affidataria.
Francesca Valenza in 20 anni ha accolto a casa 10 bambini
Possiedo una grande casa con giardino a Roma, ne affittai una parte e l’altra la misi a disposizione di quella che chiamo “la mia casa comunitaria”, in cui nei successivi 20 anni ho accolto 10 bambini e diverse famiglie in difficoltà. Mio figlio aveva 5 anni quando arrivò il primo bambino. Marco, lo chiamerò così, era nato da una giovane madre che aveva nascosto a tutti la gravidanza e non riusciva ad accettarlo. Aveva 7 anni, era cresciuto in una sorta di orfanotrofio, e decise subito che voleva restare con noi. Quando andai a prenderlo in istituto mi corse incontro così impetuosamente da cadere per le scale. Aveva paura che cambiassimo idea. È rimasto con me 10 anni, troppi in realtà, perché lo scopo dell’affido, diversamente dall’adozione, è quello di creare le condizioni affinché i bambini possano ricongiungersi con serenità alle loro famiglie di origine. Io tuttavia ero ancora inesperta, mi sentivo molto protettiva e anche preoccupata, dato che la mamma di Marco era instabile. Proprio riflettendo sulla fragilità di queste madri, man mano che andavo avanti nel mio percorso che mi ha portato anche a prendere una seconda laurea come educatrice, capivo quanto fosse importante offrire loro un sostegno. Con Slow Food, per esempio, abbiamo organizzato un corso di cucina che ha permesso ad alcune mamme di trovare un lavoro. Del resto, se è vero che per prima cosa bisogna tutelare i bambini, io rimango convinta che non esistano cattive madri, bensì madri spaventate, malate, incapaci di prendersi cura di se stesse.
Il suo ruolo è quello di una “famiglia affidataria professionale”
Oggi il Comune di Roma mi ha riconosciuta come “famiglia affidataria professionale”. Per ogni affido formalizzato dal tribunale mi viene offerto un contributo mensile di 400 euro, al resto penso io, perché voglio che i miei bambini possano andare in vacanza al mare, studiare musica e arte, fare sport. Al momento in casa ne seguo tre, due di loro sono arrivati qualche anno fa da un campo Rom, erano rimasti soli dopo che la loro madre era stata arrestata. Avevano 6 e 9 anni, e col tempo hanno avuto risultati splendidi, uno gioca a calcio, l’altro a basket. E anche la loro mamma ha fatto un bel percorso: si è ribellata al clan che l’aveva costretta a sposarsi bambina, lavora come badante, segue i figli nello sport. Il terzo è figlio di una coppia di immigrati: il padre ludopatico lo teneva segregato in casa con la mamma, spesso senza cibo, e non era mai andato a scuola, ma anche lui è rifiorito. Vivono da noi anche un ragazzo grande, Elie, che non è potuto tornare dai suoi in Africa e ormai per me è come un figlio, una donna ucraina col suo bambino e un’altra mamma ancora. Non sono mai sola. Anzi, durante il lockdown ho accolto anche una coppia di bulgari con tre figli piccoli, portandoli via da una tenda allestita sotto un ponte. Ora hanno un lavoro e una casa propria, ma i legami che abbiamo creato ci hanno reso uniti come una grande famiglia.
Francesca Valenza è felice quando vede sbocciare i bambini che ha in affido
Certo, non sempre è stato facile. I piccoli sono traumatizzati, bisogna rassicurarli, aiutarli a ritrovare la fiducia negli adulti, ricostruire i rapporti con una mamma che può essere abusante, tossicodipendente, mentalmente instabile. Due fratellini Rom mi furono rapiti dal loro clan, e non sono stati mai più ritrovati. Tuttavia questo percorso mi ha resa una persona più adulta, più consapevole e risolta. E mi ha aiutata a capire che cosa desiderassi davvero dalla vita: il mio sogno non era formare la classica famiglia, ma creare una comunità. Oggi mi sembra di averlo realizzato, ho un compagno che la pensa come me, e mi sento felice. Anche mio figlio, che ha 25 anni e ora vive per conto suo, crescendo in questa dimensione ha avuto un’esperienza che lo ha formato dal punto di vista umano. Era nato in una famiglia benestante, ha imparato che non si è davvero ricchi se non si condivide con chi è meno fortunato, sebbene non siano mancati i momenti di crisi, in cui si chiudeva e forse soffriva di gelosia. La mia gioia più grande è osservare i miei bambini sbocciare, guardarli correre e giocare, dopo averli accolti sofferenti. A volte sono così commossa che inizio a piangere da sola. Il primo, Marco, una volta cresciuto, un giorno mi ha detto: «Se tu non mi avessi portato via da quell’istituto, sarei morto». Non lo scorderò mai. Così quando il regista Francesco Apolloni, che conoscevo dagli anni del teatro, mi ha chiesto di portarli ai provini per Addio al nubilato 2 in cui avrebbe raccontato anche un’esperienza di casa famiglia, ho accettato pensando che si sarebbero divertiti. Uno dei miei piccoli Rom è effettivamente entrato nel cast, e per lui è stata un’esperienza importante: era un bambino che si era sempre sentito invisibile agli occhi del mondo e finalmente ha avuto la sua occasione di essere visto.
di Francesca Valenza, testo raccolto da Elisabetta Colangelo
Adesso in tv
È adesso su Prime video il film diretto da Francesco Apolloni e prodotto da Minerva Pictures Addio al nubilato 2 – L’isola che non c’è: racconta il viaggio di un gruppo di amiche che, dopo una serie di avventure tragicomiche, arrivano in una piccola casa famiglia di Gorizia. Le protagoniste sono Laura Chiatti, Chiara Francini, Antonia Liskova e la cantante Enula. I giovani attori provengono quasi tutti da situazioni difficili: un bambino ucraino fuggito dalla guerra, due bosniaci di un campo Rom, un ragazzo senegalese e uno in transizione. «È un film sul significato della maternità, sulla famiglia, sull’accettazione e l’inclusione» dice il regista. «Dobbiamo lasciare più spazio al sentimento e alla fantasia».