Il capitale delle donne è legato non solo al reddito che produciamo, spesso nascosto, pure a noi stesse, ma anche ai nostri valori: quelli che, dati alla mano, dimostrano come, laddove ci sia una maggioranza di donne, dalle aziende ai governi, il benessere collettivo migliori. Gli stessi per cui le imprese con una maggiore presenza femminile hanno un miglior impatto sull’ambiente e sui territori, e vedono aumentare il loro valore azionario. Perché? Per farci spiegare il legame tra soldi e femminismo, raggiungiamo Giovanna Badalassi, ricercatrice indipendente, autrice con Federica Gentile del blog ladynomics.it, che da 10 anni promuove uno sguardo di genere sull’economia. Insieme, hanno scritto il libro Signora economia (le plurali).

Secondo Giovanna Badalassi le donne non si rendono conto del loro potere economico

Che c’entra l’economia con il femminismo, parola che evoca parità, diritti, emancipazione, giustizia? «C’entra tantissimo: pensiamo al ruolo delle donne nell’economia, al loro lavoro retribuito e non, alla ricchezza che producono. Come lavoratrici, disoccupate, madri, figlie, mogli, compagne, contribuenti, consumatrici e risparmiatrici, proprietarie, investitrici, imprenditrici, facciamo la nostra parte nell’economia, ma rimaniamo nascoste alla rappresentazione collettiva, allo sguardo degli uomini e spesso anche al nostro. E questo vuol dire non rendersi conto del potere economico e politico che abbiamo. Un potere che può fare la differenza nel costruire un mondo dove domini la logica non del profitto individuale ma del benessere collettivo, dove si producano beni al servizio delle persone e non al loro comando, dove la ricchezza non sia più concentrata nelle mani di pochi ma distribuita in modo equo. Ecco l’economia femminista».

Signora economia di Giovanna Badalassi (le plurali)

Cos’è la “diversa economia delle donne”?

«Non significa che i soldi abbiano un sesso, ma che le persone, in base al genere, si rapportano al denaro in modi diversi. Gli stereotipi di genere appresi nell’infanzia ci indirizzano verso ruoli economici distinti: le donne sono educate al “matrimonio”, dunque alla cura delle persone e al benessere familiare, gli uomini al “patrimonio”, cioè al profitto e alla competitività. Si tratta di una struttura patriarcale, che ha messo gli uomini in posizioni di potere economico».

Molto lavoro svolto dalle donne non è retribuito

Cosa fanno le donne per l’economia?

«Tantissimo, perché attraverso il lavoro, retribuito e non, i consumi, le tasse e i loro risparmi sono presenti in tutte le fasi di produzione del reddito su cui si basa l’economia. Prendiamo il lavoro non retribuito: vale più di 50 miliardi di ore di lavoro all’anno contro i 20 degli uomini. Si tratta di un valore economico nascosto che però sorregge il sistema. Ad esempio, il lavoro di una madre vale circa 184.000 dollari all’anno. A livello globale, il lavoro di cura non retribuito vale 10.800 miliardi di dollari. Un peso enorme, a pensarci, ma ignorato a tutte le latitudini. Più visibile invece è il lavoro retribuito, che negli ultimi decenni ha portato benefici economici significativi, in termini di reddito per le famiglie, maggiori consumi, tasse e contributi pagati. Migliorare l’occupazione femminile potrebbe aumentare il Pil del 20% a livello mondiale e del 10% in Italia. Quindi, dato che converrebbe, se non si investe sul lavoro delle donne è solo a causa degli stereotipi di genere e delle resistenze al cambiamento».

Che peso hanno questi stereotipi nell’economia?

«Incidono nella vita delle persone, ma anche nel bilancio dello Stato. Il PNRR ci insegna come si siano investite molte più risorse nei settori maschili, le costruzioni, che in quelli femminili (welfare, sanità, istruzione). Purtroppo esistono ancora mestieri da donne e da uomini, con l’occupazione femminile che rappresenta più della metà di chi lavora nei servizi, soprattutto di cura. Poi la maternità è ancora un problema per trovare lavoro, mantenerlo, fare carriera. E anche per gli stipendi: le donne senza figli guadagnano il 53% in più delle madri, anche a 15 anni di distanza».

Più donne imprenditrici fanno aumentare il Pil

Più donne in posizioni strategiche, più ricchezza?

«Secondo gli studi, valorizzare la diversità delle donne migliora produttività e capacità di innovazione delle aziende, soprattutto quando le donne fanno carriera. La parità di genere delle imprenditrici varrebbe un aumento del 3% di Pil nel mondo, mentre un 10% di donne in più nei CdA e nel management si traduce in un incremento del valore azionario delle aziende quotate tra il 4,9 e il 6, 6%. Ma più donne in posizioni di vertice in economia e in politica non è di per sé un valore senza una vera leadership femminista, inclusiva e solidale, lontana dalle dinamiche di pink washing delle donne che perpetuano invece valori maschili».

Se in politica ci fossero donne femministe, cosa cambierebbe?

«Avere più donne in politica non garantisce proposte femministe, ma la loro mancanza sicuramente le preclude. Gli studi dimostrano che più donne elette portano a politiche più democratiche e progressiste, come parità salariale e contrasto alla violenza di genere. E aumentano il benessere generale».

Giovanna Badalassi è convinta che le femministe spenderebbero i soldi con un approccio diverso

Come spenderebbero i soldi pubblici le femministe?

«Cercando di orientare le scelte in funzione dell’impatto che hanno su donne e uomini, in un’ottica di parità. Per esempio, spendere più soldi per autobus, teatri o biblioteche favorisce le donne, che sono la maggior parte dell’utenza. Più lampioni nelle città aumenterebbe il loro senso di sicurezza, facendole sentire più libere di uscire da sole e di scegliere lavori con turni di notte. Invece spendere per parchi e giardini aiuta madri con bambini, anziani o caregiver, rifare i campi della bocciofila avvantaggia più maschi anziani. Investire in campagne di prevenzione mirate migliorerebbe la salute maschile, così come contrastare dipendenze, alcolismo, tabagismo e obesità. Finanziare corsi di sicurezza stradale, infine, ridurrebbe sensibilmente il tasso di mortalità da incidenti, più alto per i giovani che per le loro coetanee».

Da dove cominciare per realizzare l’economia delle donne?

«Dalla partecipazione: dibattere su questi temi, informarsi, leggere, staccarsi dalla superficialità dei like e dalle fiammate dei social, che non creano movimenti collettivi duraturi. Per ritrovarsi e riscoprire la propria forza: siamo tante e ognuna di noi ha potere. Usiamolo».