La scelta di Gloria Giorgianni
Sua madre Elena e la zia Elvira sono le donne che l’hanno spinta a prendere la decisione più difficile, e controcorrente, della sua vita: licenziarsi lasciando un posto sicuro nell’importante casa di produzione dove lavorava da 10 anni e aprire la sua, nel 2013, ripartendo dalla liquidazione e da un computer.
Gloria Giorgianni e Le donne di Pasolini
Per Gloria Giorgianni, produttrice cinematografica, oggi amministratrice delegata di Anele, è stata una decisione sofferta: senza l’esempio della sua famiglia forse non sarebbe mai arrivata dove è ora. «Sono le storie di tenacia che ci spingono a fare scelte importanti» dice. «In Italia ne abbiamo tante, il mio obiettivo è farle conoscere attraverso i film e i documentari che produco». Come Le donne di Pasolini, il docufilm in prima tv il 15 giugno su Rai3 (e poi su RaiPlay) con la regia di Eugenio Cappuccio e la voce narrante di Giuseppe Battiston. «Racconta la vita del nostro grande regista, scrittore, poeta e drammaturgo partendo dai territori friulani dove è cresciuto e a cui si è ispirato, ma soprattutto dal suo rapporto con la madre Susanna Colussi, alla quale era legatissimo, e con le altre quattro donne più importanti della sua vita: la cantante lirica Maria Callas, l’attrice Laura Betti, la giornalista Oriana Fallaci e la poetessa ebrea Giovanna Bemporad» continua.
Glori Giorgianni e le produzioni con donne in primo piano
Nelle produzioni di Anele le figure femminili hanno un ruolo di primo piano: dalle docufiction Storia di Nilde, su Nilde Iotti con Anna Foglietta, e La scelta di Maria, con Sonia Bergamasco per il Centenario del Milite Ignoto (una delle più viste di sempre, con quasi 4 milioni di spettatori e il 18% share), a Illuminate e Donne di Calabria. Storie del Sud, di inclusione, di innovazione. E non mancano le vite di uomini esemplari, come Arnoldo Mondadori, nel film documentario con Michele Placido, e Francesco Baracca, asso dell’aviazione italiana durante la Prima Guerra Mondiale, interpretato da Giuseppe Fiorello in I cacciatori del cielo. Anche se, chiacchierando, si intuisce che è il film tv su Carla Fracci a esserle rimasto nel cuore. «Nessuno ha mai raccontato la sua storia. Io l’ho sempre apprezzata, ma durante le riprese ho scoperto una donna forte e spiritosa, diversa dall’immagine eterea che portava sul palco. Il nostro incontro mi ha arricchito tanto, sentivo l’esigenza di condividerlo».
Anele è il nome di sua madre letto al contrario. In che modo è stata un esempio per lei?
«Si è ammalata di SLA e io ho lasciato la casa di produzione Palomar, per cui lavoravo, un anno dopo la sua morte. Mia madre ha affrontato questa malattia terribile dipingendo acquarelli e scrivendo un libro che poi mia zia Elvira (sorella di suo padre e fondatrice della casa editrice Sellerio con il marito Enzo, ndr) ha pubblicato. Le ho perse per sempre a un mese di distanza l’una dall’altra. È stato un periodo buio, ma mi hanno dato il coraggio di sentirmi libera e l’energia per affrontare la mia nuova esperienza professionale. Superando tutti gli ostacoli, come ha fatto mia madre. E anche mia zia, quando la Sellerio ha vissuto dei momenti di difficoltà e lei è riuscita a rilanciarla».
Erano anni che ci pensava, ma è stato un salto nel vuoto. Cosa non le piaceva più del suo lavoro?
«Sentivo che non era la direzione giusta. Ho fatto fatica a emanciparmi perché in Italia manca la cultura imprenditoriale, vieni apprezzata solo se raggiungi il successo. Anche i miei amici mi hanno dato della pazza. Mi dicevano: “Dove vai? Sei una donna”. Volevano proteggermi. Mia zia Elvira invece erano anni che mi incoraggiava a seguire l’istinto: lei mi ha sempre spinta a fare il meglio, senza giudicarmi mai. Alla Palomar ho iniziato a lavorare nel 2000, avevo poco più di 20 anni, come segretaria del direttore di produzione Carlo degli Esposti. All’inizio facevo solo fotocopie e caffè. Da lì però avevo un punto di osservazione speciale. Poi, un po’ alla volta, le mie mansioni sono cresciute d’importanza: ho lavorato come editor e producer, occupandomi di attività di supervisione dei principali progetti fiction e cinema, tra cui Il Commissario Montalbano. Sono diventata un punto di riferimento. Ci sono stati alti e bassi, ma percepivo il mio essere donna (e anche giovane) come un limite alla carriera. Sono arrivati a dirmi di non mettere i tacchi! Quello che conta è il mio lavoro e non mi va giù essere giudicata per il mio modo di vestire oppure perché sono più o meno simpatica. Le donne di carattere che puntano ai vertici vengono spesso additate come arroganti; gli uomini con lo stesso atteggiamento sono considerati determinati».
In effetti nel cinema le registe sono poche, e ancora meno le produttrici. È un mondo maschilista?
«Faccio parte del direttivo dell’Associazione produttori audiovisivi e nell’ultimo Osservatorio è emerso che le donne sono un buon numero nel settore costumi, trucco e parrucco; sono aumentate nella sceneggiatura; mentre nei ruoli clou, come la regia, la fotografia o la produzione, fanno carriera gli uomini. Le cose potrebbero migliorare se ci fosse una visione d’insieme più orientata al femminile: le donne dovrebbero fare squadra, aiutarsi a vicenda, stringersi le une alle altre. Questo manca».
E nella sua società le donne che ruolo hanno?
«Nel mio team siamo cinque donne e due uomini. È come una piccola famiglia. Io amo veder crescere le persone che lavorano con me, insegnare loro un mestiere e valorizzarle. Come sta succedendo con Anele, che si è creata una sua identità di nicchia nel raccontare storie vere, che vanno oltre gli stereotipi, per comunicare l’esemplarità di personaggi unici del nostro Paese. Sono apprezzata per i progetti che propongo: è un lavoro dove si crea ma si rischia anche tanto, devi vedere sempre un passo più avanti».
Che consiglio darebbe a chi sogna una carriera come la sua?
«Il mio è stato un percorso anomalo: al liceo ero molto brava, mi dicevano tutti che avrei potuto fare qualsiasi cosa. Ma questa consapevolezza non mi è stata d’aiuto. Mi piaceva scrivere, ma poi mi sono iscritta alla facoltà di Biotecnologie a Milano. Dopo appena un anno, sono tornata a Palermo, ho lavorato un po’ con mia mamma nella sua boutique, e nel 2000, a 23 anni, mi sono trasferita a Roma per amore. Poi da lì ho lasciato fare un po’ al caso: ho iniziato a cercare lavoro, perché volevo essere indipendente. Sono fatalista e penso che le persone che incontriamo fanno la differenza e ci indirizzano. Bisogna sapersi valorizzare, ma trovare anche un compromesso con la vita».