I tibetani la chiamano “Amala”, cioè “madre”, perché lo è stata e lo è ancora per migliaia di loro. E a 84 anni ha parecchio da insegnare anche al resto del mondo. Jetsun Pema, sorella del Dalai Lama e sua alleata nella lotta per il Tibet, dopo l’occupazione da parte della Repubblica Popolare Cinese nel 1950, è la donna che ha difeso la cultura del suo Paese e il diritto allo studio dei bambini che – come lo stesso Dalai Lama dal 1959 – vivono in esilio. Per 42 anni è stata presidente dei Tibetan Children’s Villages, i villaggi-scuole che il Dalai Lama ha creato a Dharamsala, nel nord dell’India, meta di migliaia di profughi. «I primi 51 bimbi sono arrivati nel 1960. Stremati, malati, dopo aver camminato per giorni e spesso dopo aver perso i genitori» ricorda Jetsun, che con gli insegnanti e le altre “amala” ne avrebbe accolti oltre 40.000, dando una casa agli orfani e creando negli ultimi 20 anni anche un polo universitario.

La sorella del Dalai Lama aiuta i tibetani in esilio

«Ora ho un nuovo progetto: una casa per gli anziani, diversa da quelle esistenti» dice quando la incontro a Venezia alla presentazione di un documentario sulla sua storia: Amala – La vita e la lotta della sorella del Dalai Lama di Geleck Palsang. Accanto a lei, l’attrice Kasia Smutniak, sostenitrice della causa tibetana e fondatrice di una scuola nel Mustang con la Pietro Taricone Onlus, che rivela un piccolo “segreto” di Jetsun. «Un giorno mi ha detto: “Sai che ho fatto anch’io l’attrice?”. Non sapevo che avesse interpretato la madre del Dalai Lama in Sette anni in Tibet, il film di Jean-Jacques Annaud con Brad Pitt».

Che cosa ha significato, nella sua infanzia, essere sorella del Dalai Lama?

«Ero solo una neonata quando mio fratello fu riconosciuto come la reincarnazione del 13º Dalai Lama. I miei genitori, agricoltori di un piccolo villaggio, avevano dovuto lasciarlo andare al Potala, il palazzo di Lhasa dove il nuovo Dalai Lama doveva vivere ed essere educato. Per me è da sempre qualcuno di molto speciale, al quale portare grande rispetto. Ricordo che ogni tanto mia madre preparava pane e altri cibi da portargli al palazzo e noi figli le chiedevamo di accompagnarla, promettendo però di stare buoni. Non è stato, insomma, un fratello come gli altri». Tuttora, infatti, lo chiama Sua Santità e mai con il nome dato alla nascita (Lhamo Dondrub, ndr).

Jetsun Pema con il Dalai Lama

Lui poi le ha affidato la guida dei Tibetan Children’s Villages: com’è cresciuto il vostro rapporto?

«Ci siamo rivisti in India, in esilio, quando io avevo 19 anni e lui 24. Finiti gli studi teologici insegnava, ed è diventato un guru anche per me. Dopo il 1960 ha fatto arrivare famiglie e bambini a Dharamsala e mi ha affidato le scuole in seguito alla morte della nostra sorella maggiore, che se ne era occupata inizialmente. Da presidente ho cercato e avuto aiuti dall’Italia e da altri Paesi europei attraverso le adozioni a distanza. Ho avuto due figli io stessa, ma essere chiamata “madre del Tibet” è un punto d’orgoglio».

C’è ancora il rischio di genocidio culturale?

«Sì, in Tibet le scuole sono cinesi e i bambini non studiano più la lingua e le tradizioni del nostro popolo. Lo stesso può succedere ai figli dei rifugiati in India. Nei Tibetan Children’s Villages abbiamo invece mantenuto i nostri valori e insegnamenti, pur modernizzandoli».

In che modo?

«Tenendo conto dei cambiamenti. Anche una cultura antichissima come la nostra non può restare immutata nel tempo: bisogna lasciar andare quello che oggi è diventato inutile e obsoleto. Trovare l’equilibrio fra tradizione e contemporaneità è una sfida difficile, non solo per i tibetani ma per tutti, basti pensare agli interrogativi che suscita l’Intelligenza Artificiale. Restano i valori imprescindibili. Come dice il Dalai Lama agli allievi: “La cosa più importante è diventare dei buoni esseri umani, onesti e compassionevoli”. La gentilezza e il pacifismo sono importantissimi, a prescindere dalla religione».

Jetsun Pema crede nel potere della gentilezza

Nelle vostre scuole avete istituito i Peace Gardens. Cosa sono?

«Sono luoghi con panchine, piante e fiori dove chiediamo ai bambini di andare a riflettere e a parlare, soprattutto dopo un litigio. Per capire perché sono stati aggressivi, per chiarirsi e fare pace. E soprattutto per rendersi conto che a volte ci si arrabbia per un pallone o un giocattolo, sciocchezze rispetto alle cose importanti».

Com’è nato il motto “Gli altri prima di noi stessi”?

«Un giorno il Dalai Lama disse ai bambini dei villaggi: “Se potete crescere qui, nutriti ed educati, è grazie alla gentilezza delle migliaia di persone che ci sostengono. Perciò un giorno dovrete voi aiutare gli altri”. Lo trasformammo in un motto, che poi è il concetto buddhista della gentilezza. Io stessa dicevo ai ragazzi: “L’unico posto dove non lo scriveremo è sulla fronte di ognuno di voi”».

La locandina del documentario sulla vita di Jetsun Pema presentato, per la prima volta in Italia, all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.

Si è ritirata dalla presidenza delle scuole a 65 anni. Poi a cosa si è dedicata?

«Al progetto dell’università. Abbiamo raccolto fondi, comprato le terre e l’abbiamo costruita con l’aiuto, fra gli altri, del governo indiano. Ora ci sono 400 studenti iscritti a vari corsi di laurea, tutti riconosciuti dalla Bangalore University, e anche ai master e ai dottorati».

Jetsun Pema spera che i giovani ora in esilio possano tornare in Tibet

Come immagina la casa per anziani che vorrebbe creare?

«Vorrei un posto dove si possa invecchiare dignitosamente, dove vivere con gli amici e le persone che ti vogliono bene. Diverso da ospedali e case di riposo, anche se ci sarebbe ovviamente il personale che si occupa del benessere di una persona anziana. Il progetto c’è, sarà costruita nel Sud dell’India».

Non spera di tornare in Tibet, con agli altri esiliati?

«Forse io non farò in tempo, ma spero che i miei figli e nipoti potranno tornarci, e viverci».