Joanna Borella è un’apripista per natura. Nel 1967 è arrivata in Italia come prima bambina straniera adottata nel nostro Paese. Nel 2015 ha fondato la prima scuola di calcio per donne e bambine di Milano. E nel febbraio 2024 ha ricevuto il Panettone d’oro, un riconoscimento assegnato dal Coordinamento Comitati Milanesi con il patrocinio del Comune di Milano ai cittadini che si sono distinti per il loro impegno civico, “diventando punti di riferimento per la città grazie ai loro progetti di aggregazione culturale”. Un percorso, il suo, contraddistinto da una costante: il valore del calcio come strumento di educazione e integrazione.
Il calcio per Joanna Borella è stato un modo per integrarsi
Com’è nato l’amore per il pallone?
«Quando sono arrivata in Italia, avevo poco più di un anno e non camminavo, perché ero rimasta in un orfanotrofio indiano insieme ad altri 150 bambini e a una sola suora missionaria, che non aveva il tempo per seguire tutti e insegnarci a camminare. In Italia, vedendo i miei due fratelli che giocavano a calcio, mi sono alzata in piedi e ho iniziato a correre dietro a loro e al pallone. Da allora ne ho sempre avuto uno con me. A scuola me lo costruivo con la carta riciclata e lo scotch e ci giocavo nell’intervallo».
Non la consideravano un maschiaccio?
«Sì, ma io ero già strana per il colore della mia pelle. Lo sport mi è servito a integrarmi in contesti nuovi. Prima giocavo con i maschi, nei weekend al parco Lambro, e poi per 7 anni ho gareggiato con Olinda, la squadra femminile dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. Lì ho trovato un coach come lo volevo io: più educatore che allenatore. Proprio quello che mi sono prefissa di diventare quando ho superato l’esame da allenatore e fondato la mia scuola. Era il 2015: da allora sono diventata “Mister Jo”».
Ai suoi corsi partecipano bambine e le loro mamme
Dov’è “Bimbe nel pallone”, l’associazione sportiva dilettantistica che ha fondato?
«Quest’anno la scuola è al centro sportivo La Salle presso la scuola San Giuseppe di Cimiano (i corsi sono convenzionati con il Comune di Milano, ndr). La sede cambia ogni anno, perché devo affittare i campi che trovo liberi. Nonostante i discorsi sulla parità di genere, per il calcio femminile la disponibilità di spazi è sempre minima. Non posso pretendere che le bambine e le ragazze si allenino dalle 20 alle 23! Avere più visibilità “diurna” smonterebbe il pregiudizio che il calcio sia una cosa “da maschi” e aiuterebbe le bambine a scegliere lo sport che preferiscono. Quest’anno ho 3 corsi: uno per bambine dai 6 agli 11 anni, uno per ragazze dai 9 ai 18 e uno per mamme dai 19 ai 60. Siamo tutte bimbe, in fondo, e non dobbiamo smettere di giocare fino a quando si può».
Cosa la rende una scuola speciale?
«Due caratteristiche. La prima è la sua apertura a giocatrici di ogni età e nazionalità. Abbiamo avuto ragazze provenienti da Paesi extraeuropei che in squadre “istituzionali” non potevano giocare perché prive del permesso di soggiorno. Ora abbiamo insieme giocatrici ucraine e africane: il calcio è anche un modo di non sentirsi escluse. Ho avuto corsi per bambine dai 3 ai 6 anni, e accogliamo le mamme in ogni momento dell’anno, perché sappiamo che una ci può mettere mesi, dopo il parto, prima di ricominciare a correre o può fermarsi per settimane se i figli si sono ammalati. Ogni donna deve venire qui perché si diverte e si sente accolta, non perché deve svolgere un’ulteriore prestazione. Spesso tutta la quotidianità domestica ricade sulle madri, avere una passione ti dà energia e fa sì che tu non ti esaurisca in un unico ruolo. Io stessa ho sempre portato con me i miei figli, Filippo e Maria, alternandomi in campo con il mio ex marito. Quando giocava lui, io stavo a bordo campo e li allattavo. Quando avevo finito, usciva lui ed entravo io».
Joanna Borella ha scritto un decalogo per vivere al meglio il calcio
Parlava di due caratteristiche distintive. Qual è la seconda?
«Il messaggio implicito in un sano sport di squadra: rispettare l’altro conta più di vincere. Se una compagna sbaglia, non la devi aggredire: se è scarsa, aiutala perché migliori. Se sei più stratega delle altre, anziché fare la solista, insegna loro come coordinarsi: il successo è un lavoro collettivo. E il rispetto si deve estendere all’avversario. Una volta un allenatore di un team maschile mi ha detto: “Mi dispiace che vi umilieremo, perché siete fragili”. Gli ho risposto: “Scusi, ma lei perché non insegna ai suoi ragazzi a giocare senza aggredire l’avversario? Se sono superiori, non hanno bisogno di farci del male: giocate normalmente, e vedremo chi vince”».
Le sue ragazze non vogliono competere?
«Certo, ma per giocare bene devono sentirsi sicure di sé, non stressate o criticate. Una volta, all’inizio di un torneo di calcio a 5, sono andata nello spogliatoio e ho chiarito: “Impegnatevi, ma se perdiamo non succede nulla”. Le ragazze si aspettavano che le motivassi, io non volevo che provassero l’ansia da risultato. Quell’anno abbiamo vinto il torneo».
Lei ha elaborato un decalogo per giocare a calcio.
«L’ho riassunto anche nel libro Le ragazze di Mister Jo (Mondadori) scritto con Stefania Carini, e so che è stato appeso in alcune classi perché quello che vale in campo vale anche nella vita. Si va da “Bisogna avere la costanza di mettersi in gioco” a “Il pensiero è collettivo: unite siamo forti. Da sola non vado da nessuna parte”».