Con i giochi invernali di Milano Cortina 2026 alle porte, lo sport torna al centro dei nostri pensieri: prepariamoci a sentirlo celebrare sempre più spesso come lo strumento che attraverso la competizione incoraggia persone di ogni genere e origine a mettersi in gioco. O come il pungolo che ci spinge a spostare sempre più in là il traguardo dell’umanamente possibile. Accadrà meno spesso di sentir menzionare lo sport, nella fattispecie il calcio, come uno strumento di riscatto dall’isolamento o una leva per salvare vite umane.

Khalida Popal ha fondato una associazione per l’empowerment delle donne

È la dimensione che ha voluto celebrate Gariwo, acronimo di Gardens of the Righteous Worldwide, l’associazione che ha creato, col Comune di Milano, il primo Giardino dei Giusti al Monte Stella (ora sono oltre 300 nel mondo) e che quest’anno ha omaggiato con 6 nuove targhe “atleti e personalità dello sport che hanno fatto il bene”: da Bronislaw Czech, sciatore polacco che si unì alla Resistenza contro i nazisti, a Harry Seidel, ciclista tedesco che aiutò oltre 100 persone a fuggire dalla Germania Est, da Emil e Dana Zátopek, campioni di atletica che sostennero la Primavera di Praga, ad Antonio Maglio, papà delle Paralimpiadi. Fino a Khalida Popal, 38 anni, attivista, calciatrice, fondatrice nel 2007 e capitana dell’ultima Nazionale femminile dell’Afghanistan, che nel 2011 trova scampo alla furia integralista in Danimarca e 3 anni dopo crea Girl Power, associazione che promuove lo sport e l’educazione come strumenti per l’empowerment e l’inclusione di donne e ragazze (girlpowerorg.com).

Khalida Popal ha salvato 600 afghani in fuga dal regime talebano

Proprio con Girl Power, Khalida Popal ha organizzato, dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, il salvataggio di 300 persone in fuga dal regime, tra cui molte giocatrici condannate a morte. «Quando ci siamo accorte del pericolo che correvano, abbiamo fatto pressioni sui governi e gli uffici per i rifugiati per far uscire dal Paese più donne possibili insieme alle loro famiglie» ricorda. «Da 300 che erano, ora sono oltre 600 le persone tratte in salvo». Nel frattempo il regime talebano ha affossato ogni diritto fondamentale delle donne, bandendo persino il suono delle loro voci.

Anche Khalida Popal ha rischiato la vita a causa del regime afghano

«Il Paese per loro è una prigione a cielo aperto. Ricevo messaggi e telefonate di ragazze annichilite dalla depressione, per molte è davvero in gioco l’equilibrio mentale. Hanno pensieri suicidi, perché è stato tolto loro tutto: sogni, speranze, la vita stessa. Eppure sono ancora là fuori a manifestare per i propri diritti, inermi contro eserciti armati».

Lei stessa ha rischiato la vita.

«In un Paese dominato dagli uomini e influenzato dal patriarcato, la mia condotta sfidante, attiva, audace era vista come una minaccia. Immaginate un integralista che mi vede sfidare in tv quella mentalità, invitando le sue figlie ad alzare la testa e a far valere le proprie scelte. Così è iniziato l’odio nei miei confronti».

Con quali conseguenze?

«Da quando il calcio è diventato lo strumento del mio attivismo e la riscossa di molte sorelle, la mia vita e quella dei miei familiari ha cominciato a trovarsi in grave pericolo. Non è stato facile ottenere il riconoscimento per giocare in Nazionale. Abbiamo affrontato molestie, abusi e rifiuti sfibranti. Una mattina sono stata svegliata dal telefono, la voce di un uomo molto arrabbiato mi accusava di fare propaganda anti-islamica, diceva che mi avrebbe stuprata, che avrebbe diffuso delle foto di me nuda. Ho resistito fino a quando non hanno cominciato ad aggredire, anche fisicamente, la mia famiglia, i miei fratelli».

Ha iniziato a giocare a calcio nelle strade di Kabul

Facciamo un passo indietro: come è iniziato tutto?

«Il pallone è entrato nella mia vita naturalmente, perché è uno sport per tutti. Ho imparato nelle strade di Kabul giocando coi ragazzi, la sensazione di libertà che provavo in quelle ore era irresistibile. Siccome in strada non c’erano ragazze, ho reclutato a scuola compagne da tutte le classi per formare una squadra. Grazie all’aiuto di mia madre, che insegnava educazione motoria e ha fatto un grande lavoro di sensibilizzazione con le istituzioni scolastiche e le famiglie, abbiamo coinvolto altre scuole della comunità e della regione: sono cominciati i primi tornei e poi un campionato tra club, fino a quando siamo riuscite a ottenere il riconoscimento della Federazione calcistica».

Ricorda la prima partita con la maglia della Nazionale?

«È stata contro il Pakistan, il momento più bello della mia vita, quello di cui vado più fiera. Eravamo lì, a testa alta, a rappresentare il Paese, a mostrare che il posto delle donne non è necessariamente in cucina, che possiamo tutte riscrivere il nostro destino. Nessuno ci aveva creduto, ma noi lo avevamo fatto. Avevamo già vinto».

Anche il padre di Khalida Popal l’ha sostenuta nella sua lotta atraverso il calcio

Ha rivelato di aver imparato il femminismo anche dagli uomini della sua famiglia.

«Mi preme mostrare quanto sia più facile che le ragazze trovino la forza di ribellarsi se hanno in famiglia alleati come quelli che io ho trovato in mio padre e mio nonno. In una società patriarcale, che svilisce le donne, mi hanno insegnato a trovare la mia voce e farla sentire, ad assumermi responsabilità verso me stessa e la mia comunità. Ovviamente, niente sarebbe stato possibile senza due donne forti come mia madre e mia nonna».

Chiede che le atlete afghane possano giocare partite internazionali

Qual è ora la sua battaglia?

«Stiamo lottando perché le atlete afghane in esilio possano giocare partite internazionali sotto la nostra bandiera, col riconoscimento della Fifa e delle Nazioni Unite. Abbiamo sacrificato la vita, cambiato la storia per quella squadra, per aiutare il calcio femminile a crescere: facciamo in modo che non sia stato invano. Chiediamo alla Fifa una piattaforma di riconoscimento per la nostra Nazionale femminile».

E al resto del mondo cosa chiedete?

«Ciò che state facendo anche voi: parlare di noi, perché governi e media se ne stanno scordando. Chiediamo alle università di istituire borse di studio per aiutare le ragazze afghane a proseguire la loro istruzione. Serve ogni tipo di sostegno. È difficile inviare messaggi di speranza, ma per loro è già importante sapere di essere viste, ascoltate. Scordiamoci delle nazionalità: sono sorelle, esseri umani che non hanno commesso alcun crimine, l’unica colpa per cui sono punite è essere donne».