Quando chiedo a Linda De Luca se c’è una paziente che non scorderà mai, lei ci pensa un attimo, poi pronuncia un nome: Gemma. «Era combattiva, spiritosa, aveva fatto i conti con la sua malattia e gestiva la sua disabilità, se la cavava anche con l’inglese» mi racconta, mentre le torna in mente tutto di quella ragazzina di 13 anni che da sempre doveva convivere con una paralisi cerebrale infantile e che una volta all’anno arrivava dall’Italia all’Hospital Special Surgery di New York per i controlli. Era tetraplegica, ma i danni al sistema cerebrale non le avevano causato disturbi cognitivi. «Nonostante fosse lei ad avere bisogno di cure, tendeva a proteggere sua madre, una signora ansiosa, scoraggiata, preoccupata. Mi diceva: “Questo non tradurlo, non ce la fa”. Penso spesso a Gemma, mi ha insegnato tanto».
Linda De Luca come interprete medico ha aiutato i pazienti italiani a New York
Linda è stata con loro un giorno, uno solo: finito il suo compito, le ha lasciate andare, come ha fatto con tutti gli altri per gli 8 anni in cui ha svolto la professione di interprete medico negli ospedali newyorkesi. Affiancava pazienti italiani o di origine italiana, il suo compito era arrivare in reparto, mettersi accanto a loro, tradurre diagnosi, buone e cattive notizie, accogliere confidenze. E poi sparire. Da questa esperienza è nato un saggio, Avrai sempre la mia voce (Bollati Boringhieri) in libreria da pochi giorni. Lo ha scritto, lascia intendere, un po’ per quel senso di urgenza che spesso spinge chi vive esperienze fuori dall’ordinario a raccontare, ma soprattutto per mostrare quanto sia importante una figura come la sua per chi si ritrova, malato e vulnerabile, ad affrontare la sfida della diagnosi e delle cure in un Paese che parla una lingua diversa da quella materna.
L’interprete medico facilita la comunicazione e dà energia ai pazienti
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«L’interprete medico è come un ponte tra i sanitari e la persona e i suoi familiari, unisce pezzi, porta luce dove c’è confusione. Per chi arriva o vive in un Paese straniero, anche da tempo, il linguaggio medico può non risultare del tutto comprensibile e quella barriera rende tutto più difficile e doloroso. Quando ti rendi conto che non riesci a spiegare i tuoi sintomi, anche le tue forze e le tue difese si abbassano. La presenza di qualcuno che facilita la comunicazione dona energia, perché fa sentire un po’ più a casa». Figlia di un odontoiatra, Linda, 40 anni, di Milano, con la medicina ha familiarizzato fin da bambina, ma quando si è trattato di scegliere la facoltà ha prevalso la passione per le lingue. Dopo la scuola per interprete a Varese e un master in traduzione letteraria tecnico-scientifica, è arrivata negli Usa per cercare lavoro ed è stata folgorata da un corso di interpretariato medico.
Negli Usa chi non parla inglese ha diritto all’interprete medico
«Il passaggio successivo è stato il colloquio con un’agenzia specializzata di Manhattan. Negli Usa il diritto all’interprete, anche telefonico, scatta nel momento in cui il paziente dichiara che la sua prima lingua non è l’inglese, anche se vive lì da tanto». È iniziato così il suo “viaggio” accanto a pazienti volati dall’Italia per curarsi o immigrati a New York, per lo più anziani arrivati a metà del secolo scorso, gente umile che aveva imparato solo la lingua della strada o donne che avevano trascorso l’esistenza a occuparsi dei figli.
Nel suo libro Linda De Luca racconta la storia di tanti pazienti
Nel libro ritroviamo gli affreschi di molti di loro, come Antonio, orgoglioso commerciante colpito da ictus, che Linda accompagna nel percorso di riabilitazione neurologica. Oppure Nicola, il musicista immigrato che suonava nei jazz club più famosi della città e di cui le è rimasta impressa quella frase – «Il dollaro è rigato di sangue» – che le ha detto riferendosi alle rinunce fatte per inseguire il sogno a stelle e strisce. E poi Concetta, che non riusciva a spiegare il brutto mal di schiena per via del suo calabrese stretto. Tutte persone che ha incrociato e mai più rivisto.
Di tanti mi chiedo come sia stato il decorso della malattia. Ma quando fai questo mestiere ti arrendi all’idea di interrompere il contatto all’ultimo incontro. E lasciare che sia.
Il lavoro di Linda De Luca prevede rigide regole deontologiche
Non allacciare relazioni è una delle rigide regole imposte dalla deontologia professionale. «Il comportamento, la posizione da assumere, anche gli argomenti di conversazione vanno scelti con cura. I temi divisivi come la politica vanno banditi, ma anche la banale domanda “Come stai?” è da evitare, perché è quasi sicuramente l’ultima cosa che vuole sentirsi chiedere chi non è in condizioni ottimali. D’altra parte, è quasi sempre il paziente a raccontarti la sua storia. Noi dobbiamo essere presenze importanti, ma non invasive». Forse anche per questo è molto difficile ascoltare e tradurre i destini di vita e di morte, fare da spettatori ai miracoli e fallimenti della medicina e, quando il medico chiude la porta, restare lì, con chi deve metabolizzare, accettare, reagire.
Linda De Luca fa da mediatrice culturale ed emotiva
«Nessuno insegna a reggere l’emozione mentre guardi un familiare e gli dici che il suo caro non ce la farà. È capitato anche a me di dover mettere in stand by emozioni e lacrime e poi sfogarle dopo, in bagno o in una stanza vuota dove mi sono rifugiata appena possibile. Ma mai è successo in presenza dei pazienti o dei familiari e mai ho pensato di lasciare. Ero concentrata sul fatto che proprio nei momenti più drammatici della loro vita avevano il diritto di avere accanto un mediatore culturale ed emotivo, non l’ennesima persona preoccupata ed emotivamente debole. Per loro sei un punto di riferimento. E poi in certe situazioni c’è talmente tanto da fare che lasci perdere il resto e ti concentri per renderti utile, perché può capitarti perfino di tradurre le istruzioni per un paziente che viene operato al cervello da sveglio, come è successo a me».
Ora Linda De Luca lavora come interprete medico ma dall’Italia
Due anni fa Linda è tornata a casa, seguendo il suggerimento di Nicola, il musicista nostalgico dell’Italia. Oggi continua a Roma la sua professione in videocall con gli ospedali statunitensi, insegna italiano nella scuola delle Nazioni Unite e traduce testi per la tv: Grey’s Anatomy è in cima alla lista «e lì qualche volta piango» ammette scherzando. Il suo sogno resta quello di fondare qui un’agenzia di interpreti per gli ospedali. «Ogni volta che entro in un reparto e vedo persone malate o donne che non capiscono come sta andando la loro gravidanza, vorrei aiutarle a trovare quel linguaggio familiare che le farebbe stare meglio. Non possiamo lasciarli soli in terra straniera, non quando si ha a che fare con il dolore».