È il pomeriggio assolato di un giorno di fine scuola nel complesso scolastico di una tra le periferie più vulnerabili e multiculturali di Milano, il Corvetto. Nella grande palestra Nadia Nadim, calciatrice di origine afghana naturalizzata danese, in forza al Milan, una carriera nelle migliori squadre europee, dal Manchester City al Paris Saint-Germain, improvvisa una serie di tiri a canestro. Ex rifugiata, laureata in Medicina e impegnata a divulgare il messaggio del potere trasformativo dello sport, Nadia aspetta di incontrare i giovani partecipanti a un progetto della missione Sport For Good di Fondazione Laureus, che nel mondo promuove il cambiamento sociale e nella periferia di Milano gestisce corsi di educazione motoria inclusiva nelle scuole di confine. Questa attività è portata avanti con il supporto e la collaborazione di Move Together, il programma promosso da H&M Move, linea del brand che celebra i benefici fisici e mentali del movimento per tutti, di cui Nadia è ambassador.
Nadia Nadim è felice di fare sport con i ragazzi
Se un anno fa è stato un altro “brand mover”, Zlatan Ibrahimovic, a motivare i bambini di un campo estivo di Milano, quest’anno tocca a Nadia, che accoglie i 40 ragazzi e ragazze dei corsi di minibasket di Sport for Good al Corvetto insieme ai loro allenatori. La magia scatta subito, il tempo di fare le squadre e Nadim è una di loro. La raggiungiamo alla fine di una partita all’ultimo canestro. È emozionata.
Che cosa prova durante questi incontri?
«Stare con i bambini, soprattutto coi meno privilegiati, mi rende felice e orgogliosa, perché so che il nostro incontro produrrà un piccolo impatto, e, chissà, forse qualcosa di più. È come se mi rivedessi in loro. Forse per questo ogni volta si crea un legame magico. Fare sport coi ragazzi è una delle cose che preferisco».
Nadia Nadim ha scoperto il calcio da rifugiata in Danimarca
Cosa sognava alla loro età?
«Prima di lasciare l’Afghanistan, non sognavo affatto: vivevo in un posto terribile. L’unica cosa che desideravo era non perdere di vista mia madre, starle sempre accanto, per una sorta d’istinto di sopravvivenza. Raggiunta la Danimarca, sono ritornata bambina e i miei sogni immagino assomigliassero ai loro. Credo di aver desiderato di diventare una calciatrice professionista dal primo giorno in cui ho visto una partita. Non sapevo nemmeno che esistesse il calcio femminile. Oggi, per fortuna, gli sport femminili sono più diffusi e accettati, ma non per tutte è così facile».
Come ha scoperto il calcio?
«Per caso: la prima destinazione in Danimarca fu un campo profughi che aveva accanto dei campetti. Ricordo che ero con due delle mie sorelle e sei o sette bambini di origini diverse. Uno veniva dall’Iraq, uno dall’Armenia, alcuni dalla Bosnia e noi dall’Afghanistan. Non parlavamo il danese e comunicavamo a gesti, ma ci confortava uscire e stare tutti insieme. Quando ho visto altri ragazzini giocare, è scattata la scintilla».
Quando ha capito di essere brava?
«Fisicamente sono sempre stata veloce e forte. Ma col calcio è stato un percorso in salita: c’erano molte ragazze più brave di me. Pensavo solo a recuperare terreno: mentre gli altri si allenavano due, tre volte a settimana, io giravo ogni giorno con la palla al piede, dalla fine della scuola a mezzanotte. Vedevo fare qualcosa e pensavo: devo impararlo. Non mi davo pace finché non ero padrona di quel gesto. A 15 anni giocavo nelle giovanili, ho iniziato a ricevere attenzione, i giornali parlavano di me. Lì ho capito che potevo farcela».
La laurea in Medicina per aiutare gli altri
Questo non le ha impedito di continuare a studiare.
«Ho sempre saputo di volerlo fare. Mia madre è stata la prima della famiglia ad avere un’istruzione. Doveva sgattaiolare fuori di casa, dopo che suo padre era uscito, per farlo. Ci ripeteva che l’istruzione è la cosa più importante: è la tua voce, la tua comprensione del mondo e il modo in cui vedi te stessa e le persone. Intorno ai 18 anni ho capito che volevo fare il medico: sentivo di voler aiutare le persone nei loro momenti peggiori, salvare delle vite. Mi piace prendermi delle responsabilità, la pressione che ne deriva mi aiuta a spingere ogni volta un po’ più in là i miei limiti: per me è una questione di crescita. Il calcio mi ha dato un buon equilibrio: la mia mente spesso è come quella di un bambino, è difficile per me stare ferma e seduta a studiare, ho troppa energia e gli allenamenti mi aiutavano ad assorbirla».
Lo sport le ha dato più sicurezza?
«Quando ho iniziato a giocare, ero una bambina spezzata, timida e spaventata. Ma imparavo in fretta: capire di essere brava in qualcosa è una gratificazione in grado di motivarti per il resto della vita. Per questo ciò che fanno Move Together di H&M e Sport for Good di Laureus è importante: non sei tu a decidere dove nascere. Ci sono persone molto fortunate, altre meno. Dare a questi bambini, anche solo per poche ore alla settimana, un momento in cui sentirsi inclusi e al sicuro e poter imparare a conoscere se stessi senza ostacoli è cruciale. Così realizzano, com’è successo a me, di essere bravi in qualcosa, acquistano autostima e fiducia, cominciano a pensare di potercela fare».
Nadia Nadim vorrebbe, un giorno, rendere lo sport accessibile alle ragazze afgane
Lo sport è uno straordinario strumento di empowerment soprattutto per le ragazze.
«Purtroppo ancora molte donne vivono in contesti in cui a loro è quasi tutto proibito. Per ogni ragazza rinchiusa in una scatola troppo piccola la possibilità di imparare in una condizione che non pone limiti è dirompente: cambia radicalmente il modo in cui vede se stessa, il proprio corpo e il mondo. Non si tratta solo di uscire e divertirsi per qualche ora, ma di accendere una scintilla, di autorizzarla a sognare».
Sogna mai di tornare nel suo Paese? Cosa farebbe se potesse farlo in modo sicuro?
«Il mio sogno è rendere lo sport e l’istruzione accessibili a tutti i bambini, a ogni ragazza, ovunque si trovi. È un’opportunità che mi è stata negata fino all’età di 11 anni. Quando improvvisamente mi hanno aperto quella porta, tutto è cambiato. H&M Move Together, i miei “partner in crime”, e Fondazione Laureus mi hanno dato la possibilità di farlo a beneficio di altri come me. Certo, mi piacerebbe un giorno poter tornare indietro e provare a creare qualcosa, per esempio promuovere l’accesso allo sport per tutte e tutti anche in Afghanistan. Al momento è difficile – là ora alle bambine è preclusa anche l’istruzione – ma, da sportiva, non mi pongo limiti».
Un progetto per portare tutti in campo
H&M Move, la linea di activewear di H&M è nata con l’obiettivo di celebrare il movimento per tutti, in ogni modalità, «come una grande energia positiva» spiega Francesca L’Abbate, sustainability manager di H&M Italia. «A quest’idea s’ispira il Together Community Program, che ha avuto la sua prima attuazione in Italia e vede nello sport il mezzo per superare le barriere e creare inclusione». In Fondazione Laureus Sport For Good Italia, parte di un grande network internazionale, H&M ha trovato l’alleato perfetto. «Laureus nasce nel 2000 su ispirazione di Nelson Mandela» spiega Daria Braga, direttrice generale, «per aiutare i bambini e i giovani a superare violenza, svantaggi e discriminazioni. Abbiamo 304 programmi in 42 Paesi con oltre 244.000 bambini beneficiari». Dopo un anno di partnership, H&M Move e Fondazione Laureus condividono con orgoglio i primi risultati: oltre all’esperienza nel quartiere Corvetto, nella periferia milanese, Laureus ha offerto corsi di educazione motoria a circa 120 bambini e bambine, ha coinvolto 300 ragazzi nelle attività multisportive e creative dei suoi centri estivi e, tra Napoli, Palermo e Roma, altri 450 in corsi sportivi extrascolastici, con l’obiettivo di contrastare la povertà educativa.