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Paola Di Nicola Travaglini si firma “la” giudice” con quell’articolo determinativo al femminile che sta facendo la storia. Perché quell’articolo non è un vezzo ma racchiude tutto il suo essere donna in un mondo di uomini, quello delle istituzioni del diritto, che resta ancora oggi profondamente maschilista. Proprio lì, nel tempio della legge, si consumano abusi e soprusi, spesso inconsapevoli perché millenari, ai danni delle donne. Sguardi, parole, quel «lei pensa di avere dei figli?» che le fanno ancora sentire in colpa quando desiderano un figlio o anche di più: per esempio, comandare una Procura.

La denuncia del maschilismo in magistratura

La magistrata, ora consigliera in Corte di Cassazione penale e nel tavolo tecnico contro la violenza sulle donne del ministero per le Pari Opportunità, lo denuncia nel nuovo libro “La giudice”, in cui racconta la ventennale esperienza in magistratura: anni spesi nel tentativo di scardinare da dentro un sistema malato e perverso che condiziona pesantemente le sentenze nei tribunali. Sua la famosa sentenza del 2014, quella che chiuse il caso di prostituzione minorile dei Parioli a cui si è ispirata la serie Baby: la giudice stabilì che la vittima fosse risarcita con libri e film sul pensiero delle donne, per iniziare la ragazza a quella consapevolezza di genere che i soldi non avrebbero potuto restituirle.

Le giovani magistrate non hanno cultura di genere

Una consapevolezza di genere che – scrive nel libro- «è come un’enorme cesta di ciliegie: quando ne mangi una, non ti fermi più». Eppure questa coscienza non matura al sole come le ciliegie proprio dove dovrebbe, cioè nei tribunali, tra le giovani giudici che si affacciano alla professione: non matura perché non si insegna. «Gli studi di genere in ambito giuridico in Italia sono rari e facoltativi» spiega Paola Di Nicola. «La semplice massiccia immissione in magistratura delle donne non cambia da sola le cose se queste giovani poi non conoscono la nostra storia, se non sanno cos’erano il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, se non sono consapevoli, cioè, che entrano in un’istituzione vietata a noi donne fino a pochi decenni fa, costruita sul minor valore della donna in quanto tale perché “bugiarda, tentatrice, avida e demoniaca”, come i principi ispiratori della nostra cultura. Se le nuove giudici, insomma, interpretano la legge come negli anni Settanta, continuando a sostenere nei processi per stupro che il sesso orale non è compatibile con la violenza, a nulla vale che siano donne. Sono le lenti di genere a fare le differenza, non il genere di per sé».

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Più magistrate non cambiano la cultura maschilista

Sono passati esattamente 60 anni (era il 1963) dal primo concorso in magistratura aperto alle donne, e oggi le giovani magistrate superano i colleghi maschi: questo non cambierà le cose?

La femminilizzazione delle istituzioni non basta. Le giovani magistrate devono sapere che si inseriscono in un contesto che nasce maschilista e mantiene salda quella modalità di pensiero. Quando sono entrata in magistratura, quasi vent’anni fa, non conoscevo neanche io la nostra storia, non credevo affatto che questa fosse una professione negata alle donne per una scelta consapevole di esclusione non solo di chi scrive le leggi, ma della società tutta. Si è arrivati a questo traguardo di oggi con sentenze della Corte costituzionale e leggi che, a rate di decenni, scelsero, diversamente dai costituenti, di prendere una posizione. Questo dimostra che le istituzioni, diversamente da quello che viene propinato in modo altisonante e in ogni contesto, non sono affatto “neutre”, perché si sono rivestite, fino a rivendicarle, di gravi forme discriminatorie nei confronti delle donne, create per escluderle e rinchiuderle. Al mio genere è stato vietato l’esercizio della giurisdizione in base a stereotipi sessisti, uguali in tutto il mondo. Non c’è nessuna “neutralità” in tutto questo e non è possibile sbarazzarcene nell’arco di pochi decenni. E la più chiara dimostrazione è data dal linguaggio che resta e resiste saldamente maschile.

Le istituzioni sono maschiliste

Quindi le nostre istituzioni sono ancora sessiste?

Sono il codice civile e il codice penale per primi ad essere costruiti su un falso neutro che mette uomini e donne sullo stesso piano indifferentemente: la parola donna non esiste, tutto è costruito sul neutro, sulla “persona” e noi ci illudiamo che sia un vantaggio, un omaggio appunto alla neutralità. E così, per esempio, troviamo “chi maltratta una persona”: ma sappiamo bene che nel 90 per cento dei casi il violento è l’uomo e la vittima la donna. Questa spersonalizzazione ha un unico scopo: svuotare la violenza per non riconoscerne l’autore e perpetuare così un sistema di potere. D’altro canto nelle aule dei tribunali si continua a contestare alle donne che denunciano violenza di aver bevuto, essersi truccate, essere uscite da sole. E questo anche da parte di magistrate. L’Italia, ricordiamocelo, ha il tragico primato, culturale e giuridico, di essere stata condannata, nell’arco di un solo anno (dal 2021 al 2022), da due diverse Corti internazionali perché due diverse Corti di appello, presiedute entrambe da donne, hanno utilizzato stereotipi sessisti.

L’avvento delle donne in magistratura è una rivoluzione, ma silenziosa

Quindi ci hanno impedito, a vario titolo e in vario modo, sempre con argomentazioni giuridiche, di diventare magistrati perché donne. Questo dovrebbe essere sufficiente ad aprirci gli occhi.

Non proprio. In sessant’anni si è consumata una rivoluzione silenziosa dentro la magistratura di cui nessuno prende atto, che resta ai margini perché le sue protagoniste non la vivono come tale e gli uomini la rimuovono. Ma sempre rivoluzione resta. Nel 2012 erano 4.006 le donne in magistratura, il 46%. Nel 2021 le magistrate sono 5.135, il 54,9%. Ben 1.252 di loro hanno meno di quarant’anni ma la maggior parte non sa che alle loro nonne era vietato anche solo aspirare a diventare magistrate della Repubblica italiana. È incredibile però che, a oggi, non sia stato studiato alcun impatto di genere su un’istituzione cruciale come quella della giurisdizione. Il nostro ingresso, quanto e come ha migliorato (o peggiorato) la qualità della risposta giudiziaria anche per le donne? Abbiamo davvero determinato uno stravolgimento di assetti tra i generi, oppure il timore che potessimo rivoluzionare l’interpretazione è rimasto tale? Nel nostro ambiente facciamo finta che nulla sia avvenuto. Tant’è che oggi le richieste per concorrere agli uffici direttivi da parte delle donne sono sempre quantitativamente molto al di sotto di quelle degli uomini.

Cosa vuol dire essere donne in magistratura

Anche perché è difficile avere figli e fare carriera pure in magistratura.

In magistratura, come nel Paese, sono le donne a occuparsi dei figli, perché tuttora quello della cura è un ambito da cui gli uomini si tirano irresponsabilmente fuori: la cura non porta denaro e non accresce il potere, anzi, fa sfigurare e ridimensiona. Negli anni 2019-2021 sono stati solo 19 i magistrati a chiedere l’astensione facoltativa di paternità, per una media di soli otto giorni; mentre sono state 2059 le magistrate ad averlo fatto. Ecco la palla di ferro legata ai nostri piedi. Nessuna condivisione, se non in rarissimi casi, del ruolo di gestione di figli e anziani. Quando ho scritto il mio curriculum per concorrere per l’ufficio semidirettivo ho trovato un “buco” di dieci anni per essermi occupata dei miei figli. I miei colleghi maschi, in quei dieci anni, avevano scritto, tenuto relazioni, creato rapporti e riempito il loro ricco curriculum. Hanno vinto su di me, perché per dirigere un ufficio giudiziario non conta nulla aver cresciuto due splendidi bambini. Invece in Francia, già trenta anni fa, una donna era stata nominata per il prestigioso incarico di primo presidente della Corte di cassazione e, quel che è più importante, senza che nessuno se ne stupisse.

Per legge le professioni si declinano tutte al maschile

Ora “la giudice” è diventata anche “la consigliera estensora” in Corte di Cassazione, e la Crusca ha stabilito che è corretto dire la giudice, la consigliera, l’avvocata, la pubblica ministera, la sostituita procuratrice, la prefetta.

Per 20 anni non mi sono firmata come una donna, perché ingenuamente credevo che le istituzioni che mi avevano tenuta fuori dalla porta solo perché donna, anche se preparata e capace, fossero neutre; perché avevo accettato, contro qualsiasi regola grammaticale, che il neutro esiste e solo per caso coincide con il maschile; perché non avevo voluto vedere che io creo un gigantesco problema, che affanna violentemente il dibattito solo perché sono giudice, procuratrice o consigliera (di Cassazione o del Consiglio di Stato). Se fossi rimasta al posto assegnatomi in quanto donna – indossatrice, cameriera o cassiera – nessuno avrebbe avuto qualcosa da dire.

Il libro La giudice. Una donna in magistratura

“La giudice. Una donna in magistratura” (HarperCollins, 16 euro) è l’aggiornamento dell’edizione del 2012, in cui Paola Di Nicola raccontava le difficoltà della carriera in magistratura per le donne: le notti in bianco, le corse per prendere i treni e presenziare alle udienze e poi rientrare per i compiti dei figli, la sede lontana da casa, l’ostracismo dei colleghi maschi, il disagio di portare i tacchi sotto la toga. Un racconto emozionante che fotografa da dentro e con occhi “di genere” un’istituzione ammantata di stereotipi contro le donne.