Ristorante Roots: come funziona

Un luogo dove mettere radici e rifiorire. Già dal nome, Roots (radici in inglese, appunto), coworking di giorno e ristorante di sera nel cuore di Modena, racconta la sua missione: aiutare disoccupate extracomunitarie a integrarsi e diventare indipendenti. Come? Loro fanno un tirocinio professionalizzante retribuito e le ricette dei Paesi d’origine di ciascuna definiscono il menu del locale, (rootsmodena.com).

Da un’idea di Caroline è nata l’associazione

L’idea è venuta a Caroline Caporossi, 30 anni, nata in Texas da avi italiani: la bisnonna nel 1902 lasciò il suo paesino in Calabria per trasferirsi a New York. «La mia famiglia, come migliaia di altre, arrivò in America a mani vuote, se non per i ricordi, le capacità e la cultura. Gli italiani si fecero conoscere attraverso il cibo» ricorda Caroline. Dopo una laurea in Relazioni internazionali e il sostegno alle immigrate latinoamericane negli Usa, si trasferisce a Modena per via del lavoro del marito friulano. All’inizio collabora con Food for Soul, ente non profit creato dallo chef tristellato Massimo Bottura e da sua moglie Lara Gilmore, occupandosi dell’apertura dei famosi Refettori, mense per i poveri con cibo di qualità, in tutto il mondo.

Ristorante Roots

«Ma ogni mattina vedevo per strada Ella, una giovane nigeriana che mendicava perché in 3 anni non aveva trovato lavoro, e mi domandavo: possibile che non possa aiutare le donne straniere anche qui?» dice Caroline. Così chiede aiuto alla sua prima amica “italiana”, Jessica Rosval, 48 anni, chef canadese oggi a capo del relais di Bottura Casa Maria Luigia e del ristorante Il gatto verde. Con una terza socia, l’avvocata Maria Assunta Loele, nel 2020 creano Aiw-Association for the Integration of Women. «Non avevamo personale, soldi e tempo. La Caritas modenese ci ha prestato per 4 mesi una cucina in modo da testare la nostra idea».

Per colpa del Covid, il ristorante Roots è nato solo nell’aprile 2022, in uno spazio cedutovi dal Comune. Come selezionate le candidate al tirocinio?

Caroline: «Le prime ci sono state segnalate dai servizi sociali. I prerequisiti sono la passione per la cucina, una base di italiano e la disponibilità di tempo. Ora qui al ristorante Roots molte arrivano tramite le ex allieve, in una catena di solidarietà in cui le donne si aiutano reciprocamente a diventare autonome. Ogni anno abbiamo 16 tirocinanti, di cui alcune formate nel servizio di sala, un altro settore dove manca personale. Hanno un’età media attorno ai 35 anni. Vengono da Guinea, Nigeria, Pakistan, Indonesia… Circa il 75% delle donne che sono state da noi ha già un impiego».

Grazie al tirocinio le donne hanno un ruolo sociale e autonomia economica

Come si svolge il tirocinio al ristorante roots?

Jessica: «Ognuno dura 3 mesi, per 350 ore: è concentrato per dare il massimo dell’esperienza in poco tempo. Agli aspetti tecnici abbiamo aggiunto una parte pratica nel ristorante, perché alcune di queste donne non hanno mai avuto un impiego. Grazie a volontari, insegniamo loro quali sono i diritti di un lavoratore, come leggere una busta paga, preparare un colloquio di selezione, non demotivarsi davanti a un no, con l’obiettivo di renderle in grado di affrontare il mondo del lavoro. La cosa stupefacente è vedere quanto cambiano nel tempo. Senza un ruolo sociale né un’autonomia economica sono come sconosciute a se stesse. Tramite il lavoro sbocciano, diventano sicure di sé, a volte prendono perfino la patente. E diventano la donna che inconsapevolmente sono sempre state».

E il menu del ristornate Roots come lo costruite?

Jessica: «Cambia ogni 3 mesi in base alla nazionalità delle tirocinanti. Il primo giorno da noi devono preparare un cibo che racconti chi sono: non solo il loro Paese, ma la famiglia da cui provengono, il viaggio che hanno fatto, le cose che amano. Una volta una ragazza ci ha cucinato l’ultimo piatto che aveva preparato per sua madre prima che morisse. Adesso stiamo servendo ricette afghane che sorprendentemente ricordano quelle cinesi, perché sono legate all’antica Via della Seta. Io cerco di dare alle pietanze casalinghe un’estetica da ristorante e le adatto in modo da variare le tecniche di cottura e fornire alle allieve più strumenti possibili. E tutto ruota attorno alla condivisione: tanto i 4 antipasti quanto i 2 secondi e i dolci vanno condivisi tra commensali perché desideriamo che le persone siano unite da un’esperienza comune».

Alcune tirocinanti del ristorante Roots. Da sinistra, Beauty, nigeriana, Aziza, marocchina, Dina, ghanese, Ikawati, indonesiana (ph. Gloria Soverini)

Il menu attuale costa 38 euro. Come si mantiene il ristorante?

Jessica: «Il locale è sempre pieno, sin dal primo giorno. E dire che prima dell’apertura avevamo ricevuto alcuni attacchi su Facebook… Ma, anziché demotivarci, hanno rafforzato il nostro proposito. Ormai dico a Bottura, scherzando, che da Roots la lista d’attesa diventerà più lunga che alla sua Osteria Francescana!».

Caroline: «Rispetto a un ristorante “normale”, le spese sono più alte, perché abbiamo anche il personale che coordina le donne e programma il tirocinio, ma il nostro modello è sostenibile e dall’estero abbiamo ricevuto tante richieste di esportarlo. Dando l’esempio di un ambiente di lavoro sano, in cui le persone celebrano il successo delle altre, possiamo avere un impatto globale».

Con questo progetto le donne migranti non tolgono lavoro ma possono crearlo

Progetti futuri?

Caroline: «Diventare un incubatore di piccole società per consentire alle donne che ora sono dipendenti di diventare imprenditrici. È un modo di sovvertire la narrativa sui migranti facendone persone che non “tolgono” lavoro, bensì lo creano».

Siete nate all’estero ma da tempo vivete in Italia. Di che nazionalità vi sentite?

Jessica: «Non mi sento parte di un Paese, ma di un’epoca: quella in cui insieme si realizza il cambiamento e si crea un futuro migliore per tutte le donne».