Il 15 agosto 2021 Selene Biffi se lo ricorda bene. Imprenditrice sociale, un curriculum ricco di sfide, premi e progetti, era stata evacuata da Kabul solo un paio di settimane prima. In Afghanistan era arrivata nel 2009 come volontaria per le Nazioni Unite e non se n’era più andata, macinando idee per sostenere le donne e non solo. Quando i talebani sono ritornati, in quell’estate di 3 anni fa, anche lei è stata costretta ad andarsene, e, poco dopo, ha aiutato decine e decine di persone a scappare in Italia.

Selene Biffi lotta perché si continui a parlare di Afghanistan

In questi 36 mesi, Selene non si è mai data per vinta. «Sono testarda e rompiballe: si può dire? E anche creativa, proprio nel senso di creare qualcosa, come sto facendo di nuovo in Afghanistan». Partiamo da qui: è venuta in Italia al Wired Next Fest a raccontare i progetti della sua nuova associazione She Works for Peace, proprio prima di ripartire. «Sì, l’ho fatto perché questo palco mi ha permesso di riaccendere i riflettori su un Paese di cui si parla pochissimo. Eppure, secondo le Nazioni Unite, la maggior parte della popolazione sopravvive grazie agli aiuti umanitari, la siccità li piega da 3 anni e la situazione dei diritti, soprattutto femminili, è drammatica. Ma non possiamo fermarci solo agli aspetti negativi. Prima del 2021, per esempio, alla Camera di commercio afghana erano registrate circa 2.400 imprese in rosa e ancora adesso le donne provano a costruirsi un presente diverso proprio grazie al lavoro. Nonostante i limiti imposti dai talebani, cercano una strada per essere protagoniste. Con i miei progetti proviamo a tracciarla insieme».

Supporta le afghane che creano piccole imprese

Il primo si chiama Bale Khanom, ovvero Pronto, signora. Di che cosa si tratta?

«È un centralino che supporta le donne che gestiscono piccole imprese da casa. È partito a dicembre e da allora abbiamo seguito oltre 5.100 imprese femminili via telefono, gratuitamente. Chiamano donne di ogni età, dai 14 ai 70 anni, da tutte le 34 province del Paese, e ci chiedono come trovare nuovi clienti, accedere ai finanziamenti o come si vende su Internet. Spesso sono analfabete, ma hanno capito che il lavoro è l’unica possibilità di riscatto. A rispondere alle domande sono 6 donne che ho selezionato e formato. Si tratta del primo servizio di questo tipo in Afghanistan e i feedback sono molto positivi. Raccogliere queste telefonate, però, ci ha messo davanti alle criticità. Per risolverle, è nato il secondo progetto».

Il secondo progetto

Selene Biffi con la sua associazione fornisce alle donne afghane anche strumenti di lavoro (ph. Oriane Zerah)

Ce lo presenta?

«Si chiama Abzar – attrezzi, in lingua Dari – ed è una “biblioteca degli attrezzi”. Moltissime donne non hanno accesso al credito e, quindi, non possono acquistare gli strumenti di lavoro come le macchine da cucire o gli elettrodomestici per cucinare. Noi abbiamo aperto uno spazio fisico dove trovano oltre un centinaio di attrezzi che prendono in prestito gratuitamente e restituiscono quando non servono più, proprio come si farebbe con i libri di una biblioteca. È meraviglioso vedere queste ragazze che, arrivano timorose a chiederci un paio di macchine da cucire e poi, dopo qualche settimana, tornano al settimo cielo per raccontarci i loro successi e dirci che, adesso, hanno la possibilità di far crescere le loro imprese».

Cosa bolle in pentola ora?

«Tante donne vivono in condizioni di povertà estrema e il lavoro è vitale per dare da mangiare ai figli. Così ci siamo concentrati sull’agricoltura idroponica, che coltiva frutta e verdura in impianti con soluzioni acquose. Questa tecnologia permette il risparmio di oltre il 70% di terra e acqua, un dettaglio importante in questo Paese dato che la siccità e disastri naturali come le inondazioni sono all’ordine del giorno. Moltissime donne, spesso analfabete, stanno frequentando i nostri corsi per imparare a costruire e gestire gli impianti idroponici. Fare innovazione sociale è cruciale perché crea cambiamento, porta con sé cultura, dialogo e sostenibilità: solo con questi ingredienti possiamo dare una speranza a un Paese che, per oltre 20 anni, ha visto pochi risultati dai progetti proposti dalla comunità internazionale».

Nel suo team ci sono solo persone del posto e tante donne

Selene Biffi ha fondato l’associazione She works for peace (ph. Daniele Di Mico)

Non ci sono mai momenti in cui questa speranza sembra morire?

«Certo, mentirei a dire il contrario. La quotidianità a Kabul è davvero difficile. Qualsiasi azione è complicata e lo è stato anche iniziare. In Italia ho trascorso mesi mandando migliaia di mail e facendo decine di telefonate per trovare donatori: alla fine qualcuno è arrivato, come il Fondo di Beneficenza di Banca Intesa, che supporta il centralino, il Rotary Club di Ferrara / Area Estense e la Fondazione Marcegaglia. Anche qui gli ostacoli sono innumerevoli, ma c’è un proverbio afghano che recita così: “Per quanto sia alta una montagna, esiste sempre una strada per arrivare in cima”. Per esempio, un pezzo di strada l’ho percorso imparando il Dari, una delle due lingue ufficiali dell’Afghanistan, e coinvolgendo nel mio team solo persone del posto e tante donne: così abbiamo una squadra che capisce davvero le problematiche locali».

Qual è stato il momento più emozionante da quando è tornata a Kabul?

«Qualche settimana fa è venuta da me una vedova con 6 figli da mantenere. Voleva arrendersi, perché purtroppo la rassegnazione è entrata nel cuore di tante donne. Ha frequentato il corso di agricoltura idroponica e sta per iniziare una nuova vita. Si sente più forte, è orgogliosa, vuole diventare indipendente. Il cambiamento di un intero Paese inizia così».

Selene Biffi ha una lunga esperienza nel volontariato

Invece lei quando ha capito che questo era il suo mondo?

«Sono cresciuta in un piccolo paese della Brianza, i miei sono commercianti ma da 40 anni vanno in India dove, con grandissimi sacrifici, hanno costruito un ospedale e una scuola dove studiano gratuitamente centinaia di bambini e bambine. Mia mamma mi ha sempre ripetuto che, a meno che tu non sia malata, non ci sono scuse per non aiutare chi ha bisogno. Ho fatto a lungo volontariato e nel 2004, a 22 anni, ho presentato la mia idea al Parlamento Internazionale della Gioventù: si trattava di una piattaforma che organizzava corsi di formazione online gratuiti perché i ragazzi potessero creare progetti di sviluppo direttamente nelle loro comunità. Con l’Afghanistan è stato un colpo di fulmine. Sa che alla mia scuola di cantastorie, nata nel 2013, all’inizio non ci credeva nessuno? Invece quel luogo in cui si respiravano storia, arte, tradizioni ha aperto uno squarcio nel buio e ha educato decine di ragazzi e ragazze a utilizzare le storie per parlare di temi importanti a pubblici con un basso livello di alfabetizzazione. Nel 2016 abbiamo ricevuto il premio  “Mother Teresa Award” in India».

Come vede il futuro?

«Pieno… Qui ci sono così tante cose da fare. Qualche mese fa ho comprato un autobus a Kabul che poi abbiamo trasformato in un incubatore per imprese femminili, grazie al supporto della OTB Foundation. Questo mese il Brave Bus – brave sta per coraggioso, in inglese – comincerà a girare nei quartieri più poveri di Kabul offrendo corsi, materiali e supporto alle donne che lavorano da casa».