Prima facie è un termine legale: in latino significa “a prima vista” e indica le cause che apparentemente possiedono elementi di prova sufficienti per richiedere un rinvio a giudizio. «Eppure, tra le cause che sulla carta hanno possibilità di vincere, fanno eccezione quelle per violenza sessuale: in Gran Bretagna solo nel 13% dei casi l’imputato viene condannato» spiega Suzie Miller, ex avvocata anglo-australiana per i diritti umani, drammaturga, sceneggiatrice e autrice di un romanzo che si intitola, appunto, Prima facie, appena uscito da noi per Neri Pozza.

Nelle violenze sessuali il corpo della donna è la scena del crimine

Per far luce su questo paradosso Suzie Miller ha immaginato la storia di Tessa, promettente studentessa che si riscatta da un ambiente familiare vulnerabile grazie a una brillante carriera come avvocata di difesa, in cui rappresenta senza reticenze anche imputati di reati sessuali. Solo quando si ritrova nei panni della vittima, Tessa realizza come nei casi di violenza l’onere della prova e la morale possano divergere e quanto sia schiacciante il potere patriarcale della legge. Prima facie nasce come pièce teatrale, interpretata prima a Londra e poi a Broadway da Jodie Comer, che ha meritato un Tony Award, mentre è in preparazione un adattamento cinematografico con Cynthia Erivo. La ragione del suo successo è probabilmente il tono empatico e diretto con cui Miller indaga su questa presunta falla del sistema giudiziario. «La legge non tiene conto di un aspetto cruciale: nelle violenze sessuali il corpo della donna è la scena del crimine. Ciò rende spesso psicologicamente complesso per una vittima rievocare i fatti in modo coerente e cronologicamente plausibile. Potrebbe non ricordare dettagli periferici – non è il colore di una lampada che noti quando stai lottando per la vita – ma di certo non ha dubbi su ciò che è accaduto e chi è stato».

Suzie Miller ha seguito tante giovani vittime di violenze sessuali

Lo ha verificato da avvocata?

«Mi sono occupata molto di difesa penale. Ma ho anche seguito a lungo le giovani vittime di violenze sessuali che facevano domanda per ottenere accesso a una consulenza psicologica. Per averne diritto dovevano rilasciare una dichiarazione: venivano con l’assistente sociale, a volte parecchio tempo dopo l’accaduto. Erano storie strazianti, violente, tante avevano davvero bisogno di un sostegno. Potevano rivolgersi alla polizia, ma poche andavano in tribunale e non credo di aver mai sentito parlare di una condanna. Tutte raccontavano la verità, insieme alle testimonianze raccoglievo le loro lacrime: a parte il diritto a una terapia, non avevano nulla da guadagnarci. Eppure, se nella loro deposizione c’era traccia di incongruenza, la legge sembrava dare per scontato che mentissero».

Dove nasce il pregiudizio?

«Una cosa che sappiamo sulla violenza è che, quando le donne rivelano di averla subita, l’emozione e il senso di minaccia che si provano sono così grandi che la reazione istintiva è quasi sempre quella di immaginare cosa avremmo potuto fare per impedirla, se fosse capitata a noi o a persone vicine. Molti reagiscono con domande che alimentano il senso di vergogna: la vittima inizia a dubitare di sé, a giudicarsi. Succede con le madri, le amiche, con chi ci vuole bene. Accade soprattutto in aula: quante volte abbiamo sentito proferire quesiti inopportuni e incalzanti che causano una vittimizzazione secondaria? Tutti discendono dall’idea patriarcale che le donne non siano persone sessualmente autonome».

Suzie Milelr dice che per le donne non deve essere inevitabile vivere nel terrore

In che senso?

«Oggi le donne hanno conquistato la libertà di scegliere se e quando avere rapporti, cambiare idea, mostrarsi seduttive senza volere per questo fare sesso, desiderare un primo rapporto senza per forza acconsentire ad averne un altro. Ma la verità è che là fuori tutto è rimasto lo stesso. Le strade, i locali, gli ambienti di lavoro, persino le case non sono luoghi sicuri per noi, come non lo erano per le nostre madri o nonne. Abbiamo normalizzato l’atmosfera di perpetua minaccia, il fatto che sia inevitabile vivere nel terrore, tornare a casa di notte, raggiungere la stazione della metro col buio, mettendo sempre in conto la possibilità che ci accada qualcosa. Questo rischia di eclissare il tema fondamentale del consenso».

Ci spieghi meglio.

«Molti avvocati si stanno attivando. Sono andata a parlarne alle Nazioni Unite, ed è stato interessante osservare come i vari sistemi giuridici si assomiglino in questo. In generale c’è un pregiudizio basato sull’idea che il consenso sia implicito finché qualcuno non dice di no. Ma questo non si applica a nessun altro tipo di crimine. E non basta dire che no significa no, dobbiamo spiegare ai ragazzi che serve un sì esplicito. Pesa sulle nostre spalle l’idea atavica che la sessualità maschile sia qualcosa di incontrollabile e che, una volta entrati in una modalità intima, non ci sia modo di fermarla. Il desiderio sessuale non è monopolio degli uomini, sappiamo benissimo cosa si prova, ma l’idea del diritto maschile al sesso deriva da generazioni e generazioni di avvocati maschi, da leggi che affondano le radici in tempi in cui le donne erano proprietà di padri e mariti».

È questo che differenzia la violenza di genere da altri crimini?

«È sempre la donna a dover dimostrare non solo che non fosse consenziente, ma che l’aggressore fosse consapevole della sua indisponibilità. È sempre delle donne la responsabilità di dire forte e chiaro se ciò che gli uomini ci fanno o ci chiedono è inappropriato. Ci sono così tanti risvolti da dimostrare che ci si sente soverchiate. Assistevo ai processi per stupro e pensavo “C’è qualcosa di sbagliato”, ma non riuscivo ad articolarlo. Così ho immaginato una storia per spiegare meglio ciò che la legge, e la gente, non vedono: i pregiudizi di genere. Se attraverso il racconto riesci a creare empatia, sei in grado di promuovere un cambiamento, una consapevolezza».

Una donna su tre nel mondo subisce violenza

Per questo ha messo un’avvocata al centro della storia?

«Per forzare la contraddizione: mi serviva un espediente per spiegare come funziona la legge. Volevo anche mostrare come spesso il presunto colpevole scelga di farsi rappresentare da una donna per ottenere la simpatia della giuria. Grazie al cielo, però, le cose stanno cambiando: la buona notizia è che l’organico dei giudici del tribunale penale di Londra ha raggiunto la parità di genere. Molte magistrate mi hanno contattato: dalla loro posizione di potere constatano quotidianamente ciò che denuncio. E anche i giudici maschi si mettono finalmente in gioco».

Una donna su tre nel mondo subisce violenza, ma in molti processi non segue una condanna. Difficile convincere a denunciare.

«La sfiducia è legittima. Pur sapendo che non verranno credute, che attraverseranno un autentico calvario, molte donne denunciano per un senso di responsabilità verso se stesse e le altre. Ma finché il sistema è sbagliato, non tutte hanno le risorse e la forza per andare fino in fondo. Il presupposto è che funzioni la comunità: la legge in fondo è il suo riflesso, è sicuramente in ritardo rispetto al ritmo con cui la società evolve, ma è definita dai suoi valori. Il modo in cui cresciamo i nostri ragazzi non sfida abbastanza questa mentalità. Ho due figli adolescenti e vedo che spesso ad aggregare i giovani è una sorta di misoginia casuale, che non riconoscerebbero mai di fronte alle loro madri, anche quando hanno ricevuto un’educazione femminista. La mia domanda è: dove sono i papà, gli educatori, gli allenatori, i fratelli maggiori, le persone che hanno accesso a quella zona di fratellanza? C’è bisogno di qualcuno che ci spalleggi, che dica loro: “Pensi che sia divertente? Ora ti spiego perché non lo è”».

Un libro che aiuta a riflettere

Prima facie di Suzie Miller.

Prima facie, romanzo della drammaturga Suzie Miller (edito da Neri Pozza) ha per protagonista Tessa Ensler, un’avvocata specializzata in casi spinosi, come la difesa di chi è accusato di violenza sessuale. Fino al giorno in cui lei stessa si confronta con l’ingiustizia di regole che riteneva giuste.