Quando si parla di discipline STEM – cioè scientifiche, matematiche e tecnologiche – gli stereotipi sono ancora duri a morire. Lo dimostrano i dati: mentre cresce il numero di donne laureate che hanno superato da tempo gli uomini, quello delle studentesse che si specializzano in campi considerati ancora troppo “maschili” è basso. «I retaggi culturali portano persino a pensare che sia una questione genetica, ma il cervello femminile apprende esattamente come quello maschile. Ciò che manca sono modelli di riferimento per le bambine e le ragazze, ai quali ispirarsi», spiega Laura Basili, Presidente dello STEM Women Congress, un evento dedicato a questo tema e che ha permesso di scattare una fotografia chiara.

Sempre più donne laureate ma non nelle STEM

Ogni 1.000 italiani ci sono 76,8 donne laureate rispetto ai 40,9 uomini: sono dati incoraggianti quelli nell’ultimo Rapporto BES 2023 di Istat, che mostrano un aumento della componente femminile. Eppure a ben vedere ci sono ancora dei muri da superare, primo tra tutti quello del numero di studentesse che si cimenta nelle discipline cosiddette STEM (Science, technology, engineering, and mathematics). Nell’ambito scientifico e tecnologico, infatti, ci sono ancora troppe differenze di genere, che rendono l’Italia fanalino di costa rispetto alla media europea.

Più studi scientifici (ma non abbastanza)

La fotografia è stata scattata in occasione dello STEM Women Congress, organizzato a partire dal 2019 prima in Spagna e Portogallo, ora anche a Milano dalla STEM Women Association, con lo scopo di colmare il gender gap nel mondo STEM e promuovere il talento femminile. Aumentano, infatti, i giovani che scelgono percorsi di studi nelle materie scientifiche – 17,8 giovani ogni mille tra i 20 e i 29 anni, rispetto ai 16,5 nel 2020 e i 16,1 nel 2019 – ma le studentesse sono ancora troppo poche, soprattutto in Italia.

Italia fanalino di coda nelle STEM

Tra gli studenti italiani, 18,3 ogni mille conseguono una laurea in discipline STEM, mentre sono ben 58,1 ogni mille quelli che puntano ad aree non STEM. All’interno di questi numeri, poi, pesano ancora molto le differenze di genere nelle scelte educative: «Nel nostro Paese ogni 1000 ragazze tra i 20 e i 29 anni solo 14,3 portano a termine gli studi nei percorsi scientifici e tecnologici, contro 21 ragazzi», conferma Basili, che è anche co-founder di Women at Business insieme a Ilaria Cecchini.

Come si supera il gender gap (all’estero)

«A ben vedere nessuna nazione europea ha colmato il gender gap, anche se naturalmente i Paesi nordici sono più avanti. In Italia la donna ha ancora l’onere e l’onore di occuparsi della famiglia e delle attività di cura, sia dei figli che dei genitori anziani, rinunciando troppo spesso alla realizzazione professionale – conferma Basili – Siamo la patria della cosiddetta “mamma italiana”. Però devo dire che, se non siamo messi bene, siamo in buona compagnia sulla strada verso un cambiamento che richiede tempo e passa da cambiamenti strutturali e culturali, come il concetto di genitorialità».

Il cambiamento inizia in famiglia

«In altri Paesi non ci si limita a parlare di parità, ma è diverso l’approccio anche alla genitorialità, che deve essere condivisa. I padri, ad esempio, possono legittimamente prendersi un congedo parentale per godersi i primi momenti di vita dei figli, senza per questo passare per “mammi”. Questo è un concetto importante, perché gli stereotipi possono impattare anche sugli uomini», osserva Basili, che aggiunge: «Per cambiare questa situazione occorrono molte forze in campo, a partire dalle famiglie dove ci sono ancora tante mamme che rinunciano a lavoro e carriera per dedicarsi unicamente alla casa» sottolinea Basili.

Portare esempi concreti nelle scuole

«Poi occorre portare nelle scuole delle role models, esempi che mostrino concretamente che scegliere una professione e inseguire un sogno per diventare ciò che si desidera è possibile». Come spiega ancora la presidente di STEM Women Congress, «Purtroppo resiste un retaggio per cui si pensa che il binomio donna-materie STEM non possa funzionare, quasi a livello genetico, mentre è soprattutto un problema culturale. Le ragazze e le bambine pensano che i percorsi matematico-scientifici non siano adatti a loro e sono portate a dedicarsi al campo umanistico e alle professioni di cura».

Servono le quote rosa anche all’università?

In politica e nel campo delle professioni manageriali si è fatto ricorso alle quote rosa. Servirebbero anche nelle università e in particolare nelle facoltà STEM? «So che non piacciono molto, neppure a me, ma a volte imporre un cambiamento per legge può aiutare. Aver imposto una presenza femminile obbligatoria nei consigli di Amministrazione, per esempio, è stato utile per abituarsi a vederle: è un passaggio quantitativo, dopo il quale si può poi prendere in considerazione anche quello qualitativo, focalizzandosi sulle competenze. È un inizio, non un punto di arrivo», spiega Basili.

Formarsi per non fermarsi

Un altro contributo importante, però, arriva anche dagli esempi, quelli di donne che hanno inseguito il loro sogni e realizzato progetti concreti, come quelli indicati in occasione dello STEM Women Congress. «Qui abbiamo, per esempio, donne ingegneri che raccontano del loro lavoro e di come non esistano mestieri per maschi o per femmine, ma competenze per svolgerli. Dobbiamo portare queste donne nelle scuole, investire sul futuro delle prossime generazioni – osserva Basili – Nel frattempo, però, è possibile agire anche sul presente. Molte donne (e uomini!), infatti, possono recuperare fin da oggi le competenze richieste dal mercato del lavoro, seguendo corsi di formazione, re-skilling e up-skilling: noi diciamo sempre che bisogna continuare a evolversi, formarsi per non fermarsi».