Le nostre aziende dovrebbero ispirarsi a Taylor Swift, essere cioè capaci di attrarre persone di generazioni diverse facendole stare bene tutte insieme. È uno dei messaggi che si ricavano da un recente post su LinkedIn di Bradley Schurman, opinion maker americano esperto di andamenti demografici e autore di The Super Age, decoding our demographic destiny (Harper Business). Schurman, ospite qualche tempo fa in Italia di Cocooners (community che offre esperienze, di viaggio ma non solo, per i senior: cocooners.com), ha illustrato i tanti impatti che può produrre l’allungamento della vita media sull’economia e sulla società. Il tema è stato anche al centro di Agevity, evento organizzato a ottobre da Assolombarda e Silver Economy Network durante il quale è stata presentata la ricerca Scenario Longevità. Rapporto 2023.
Generazioni di lavoratori con bisogni e aspettative diverse
Il dibattito resta in fermento attorno a questa domanda: di fronte a un aumento degli occupati over 50, erano il 26% della popolazione lavorativa nel 2010 e il 39% nel 2022, come conciliare le nuove aspettative della popolazione “senior” con le aspirazioni di partecipazione delle generazioni più giovani? Per rispondere partiamo proprio dal concetto di longevità. «Oggi non possiamo pensare di andare in pensione con gli stessi anni e le stesse modalità dei nostri genitori, perché viviamo più a lungo e perché c’è un problema di “scarsità” di competenze: per alcuni mestieri non si trovano persone che sostituiscano chi lascia il lavoro» sostiene Alessandra Giordano, Direttore Employability di INTOO, Gi Group Holding. «La longevità richiama poi due concetti: la long term employability, cioè la capacità della persona di restare impiegabile, per esempio grazie alla formazione continua, e l’age management, ovvero il modo in cui le aziende gestiscono le varie fasce d’età. Queste infatti hanno bisogni, aspirazioni e competenze diverse. Sono persone in fasi differenti sia nella professione sia nella vita: pensiamo a un 25enne neoassunto senza carichi familiari in confronto a una 40enne che magari ha fatto carriera e deve prendersi cura di un figlio e dei genitori anziani. Non si può, per esempio, pensare di offrire lo stesso welfare a tutti».
Baby boomer e Gen Z: generazioni con atteggiamenti diversi verso i capi
Quanto sia sfidante rapportarsi a 4 generazioni in contemporanea, Baby Boomers, Gen X, Millennials e GenZ, lo conferma Arnaldo Carignano, Head of Career Transition Randstad RiseSmart. «Per i giovani sono imprescindibili alcuni valori come la sostenibilità. Se l’azienda in cui entrano proclama una serie di valori, il leader deve incarnarli. Se questo non succede, è un problema. Di solito, infatti, le persone non lasciano le aziende ma i capi. D’altra parte, il compito di un manager non è semplice. Alle riunioni partecipano persone che da anni sono abituate a riflettere bene prima di intervenire. Le nuove generazioni invece, cresciute con i social dove ci si espone immediatamente, sono più portate a dare subito un feedback. Quindi i capi si trovano con dipendenti che intervengono poco e altri che intervengo sempre. I giovani, poi, sentono meno la gerarchia e tendono a dare a tutti del tu, ma questo può risultare spiazzante per altri». Una situazione di potenziale crisi si verifica quando il superiore è più giovane dei suoi sottoposti. «Se ho un capo che ha 30 anni meno di me, culturalmente è ancora un problema» dice Giordano. «Non dovrebbe esserlo, ma quanti senior si chiedono cosa possano imparare da un junior? Eppure il reverse mentoring, dove sono i giovani a insegnare qualcosa ai più anziani, se ben organizzato, dà risultati positivi».
Sul lavoro i giovani possono imparare dai senior e viceversa
I ragazzi possono apprendere da chi è avanti negli anni. «Si valorizzano le generazioni più anziane coinvolgendole nell’onboarding, cioè nel percorso di inserimento dei neoassunti» avverte Carignano. «Per il compito vanno scelti però i senior giusti, quelli con solide competenze tecniche, che magari hanno ricoperto più ruoli in azienda ma soprattutto dimostrano un forte ingaggio o ”attaccamento alla maglia”. Ci sono invece molti dipendenti che in tanti anni non hanno mai accettato neppure di cambiare ufficio». La chiave di volta è il mindset, la mentalità con cui ci si approccia. «Un aspetto cruciale è la consapevolezza» spiega Giordano. «Quanto un 55enne è consapevole che deve restare al passo con la tecnologia e quanto un 25-30enne è consapevole che per quanto bravo sia deve ancora imparare molte cose? Capirlo implica uno sforzo di riflessione che richiede tempo, ma oggi spesso in azienda si vogliono soluzioni veloci. Di solito si dedica poco tempo anche a un altro aspetto cruciale: l’azienda deve far parlare i dipendenti e ascoltarli, solo così emergono bisogni e idee e si individuano le risposte giuste. Vedo però anche sperimentazioni positive, per esempio aziende che, mentre richiamano persone dalla pensione perché hanno competenze che non si trovano, creano academy interne per formare nuovo personale».
Le aziende non possono mandare tutti gli over 55 in pensione
A proposito di pensionati e pensionabili, qual è il giudizio sui prepensionamenti? «Non possono essere la soluzione, perché economicamente non ce lo possiamo permettere e perché prepensionando gli over 55 si rischia spesso di perdere fasce di competenza tecnica e storia aziendale» dice Giordano. Secondo Carignano, «non tutti fanno la corsa per accedere ai prepensionamenti. C’è chi a casa non saprebbe cosa fare e ha ancora tanta energia da spendere professionalmente. Alcune aziende propongono un part-time incentivato: danno al dipendente che potrebbe andare in pensione la possibilità di lavorare meno ore ma con uno stipendio più elevato del normale part-time». Tra sfide contabili ed emotive, tentativi di amalgamare le varie generazioni al lavoro quindi ci sono. Per tornare al post di Bradley Schurman citato all’inizio: Madonna e Beyoncé negli ultimi tour si sono esibite con le loro figlie sul palco. Quando Gen Z, Millennials, Gen X e Baby Boomers potranno essere tutti insieme a pieno titolo coprotagonisti in ufficio?
Quale pensione ci aspetta?
Con la legge di Bilancio si è tornati a discutere di pensioni. Tra dichiarazioni, battibecchi e precisazioni, chiariamo alcuni punti con l’aiuto di Elisa Lupo, consulente del lavoro e autrice del podcast Previdenti. Alla base del sistema previdenziale resta la riforma Fornero, che si fonda su due capisaldi: oggi la pensione di vecchiaia è a 67 anni d’età, la pensione di anzianità a 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne. Ciò di cui si è parlato negli ultimi giorni, da Quota 103 a Opzione donna, all’Ape sociale, sono invece norme transitorie, cioè possono esserci in un dato anno ma non in un altro, dipende dai singoli governi. Il trend di queste norme, che consentono un’uscita anticipata dal lavoro a fronte di una decurtazione dell’assegno, è che i requisiti per accedervi sono sempre più restrittivi. Così si riduce la platea degli aventi diritto, perché queste norme fanno andare in disequilibrio il sistema previdenziale. Si sente dire che i giovani non avranno la pensione. In realtà i giovani hanno un’altra certezza: sanno che la loro pensione pubblica non basterà e devono adoperarsi dal primo giorno in cui lavorano per costruirsi una pensione integrativa.