Secondo una ricerca condotta dalla American Association of Retired Persons-AARP, circa l’80% dei lavoratori tra i 40 e i 65 anni ha conosciuto direttamente o indirettamente una forma di discriminazione proprio per la sua età. Si tratta del dato più alto dal 2003. L’ageismo, dunque, non ha solo a che fare con la sfera personale, con l’idea del passare degli anni o con la questione estetica. Il sentirsi inadeguati o l’essere considerati tali a causa dell’età, nel mondo professionale sta diventando un problema crescente, specie per la generazione X, cioè quella di chi oggi ha tra i 44 e i 59 anni.

L’ageismo discrimina sul lavoro

Sono tante le storie di subisce discriminazioni nel mondo del lavoro a causa della sua età. Come racconta la BBC, ad esempio, quella di Nick è esemplare: ha 49 anni e ogni volta che si risponde a un’offerta di lavoro gli viene risposto di «non prenderla sul personale», o gli viene sottolineato che ha «un eccellente curriculum e molte esperienze», eppure alla sua candidatura viene preferita quella di altri più giovani. Il problema si è accentuato negli ultimi tempi, complici le conseguenze della pandemia, i licenziamenti di massa e la rapida evoluzione tecnologica. I manager, infatti, prediligono i nativi digitali ai meno giovani.

Un fenomeno anche italiano

Quello che accade nel Regno Unito e in America non è così diverso dalla situazione in Italia. «L’Istat conferma che l’inizio del 2024 è stato caratterizzato da una crescita del tasso di occupazione, in generale, tra tutte le fasce d’età. Parallelamente, però, la disoccupazione complessiva resta stabile, con una lieve flessione tra le donne e gli ultracinquantenni. Come rivelano i dati, quindi, l’ageing può ancora rappresentare un fattore all’attenzione delle aziende alla ricerca di nuovi talenti. È difficile, però, generalizzare: lo scenario non è il medesimo in tutti gli ambiti di mercato», osserva Marco Ceresa, Group Ceo di Randstad, azienda che si occupa di ricerca, selezione e formazione di risorse umane.

I settori più interessati dall’ageismo

L’ageismo ha a che fare con il mondo del lavoro, non solo con la sfera personale. Insomma, non è solo una questione estetica: le rughe non c’entrano. C’entra l’idea che una persona, superata una certa età, non sia più al passo con i tempi, soprattutto con le nuove tecnologie e l’AI, che «stanno creando nuove professioni, influenzando in modo particolare alcuni settori come il mondo ingegneristico o sanitario. In questi comparti, più esposti allo sviluppo tecnologico e che richiedono competenze diverse e sempre più specializzate, la ricerca di nuove risorse può più frequentemente orientarsi verso profili più giovani, le cui soft skill maggiormente apprezzate sono sicuramente la flessibilità e la velocità di apprendimento», sottolinea Ceresa.

La tecnologia taglia fuori la generazione X?

«I talenti più giovani, nati e cresciuti nell’era delle trasformazioni tecnologiche, hanno certamente una più naturale “vicinanza” al mondo digitale – prosegue l’esperto – È una generazione che ha sperimentato un mercato del lavoro in continua evoluzione, con la conseguente necessità di adattarsi velocemente alle nuove richieste del contesto. Tuttavia, le ultime tecnologie e i sistemi di automazione e AI, non vanno oggi a sostituire le professioni esistenti ma ad “affiancarle”, migliorando la produttività. In questo contesto, pertanto, anche i lavoratori meno giovani rappresentano una risorsa di estremo valore per le aziende, potendo mettere a disposizione, già in partenza, un solido e ampio set di competenze».

È necessario fare formazione

Per i “senior”, quindi, diventa sempre più necessario tenersi al passo coi tempi: «Affinché ogni talento lo sia, certamente resta fondamentale per le aziende sviluppare percorsi di formazione e sviluppo, upskilling e reskilling. È attraverso queste opportunità che, parallelamente, si può cercare di ridurre sempre di più l’impatto della talent scarcity, ovvero la carenza di risorse qualificate che rispondano efficacemente alle necessità dell’attuale mercato del lavoro». Uno dei problemi maggiori, infatti, è il mismatching, la mancanza di incontro tra domanda e offerta, che può colpire in particolare alcune fasce d’età.

Gli stereotipi e le discriminazioni più comuni

Tra le convinzioni più comuni, infatti, c’è l’idea di una mancanza di adeguatezza specie riguardo le innovazioni tecnologiche. Questo porta spesso a privilegiare i giovani per le posizioni più apicali o delicate, arrivando spesso a suggerire corsi di formazione ai lavoratori della generazione X. Un altro stereotipo è che siano più “lenti” e meno disposti a cambiare il loro modo di lavorare o ad aprirsi a innovazioni e progresso. La condizione delle donne è ancora più sfavorevole, perché sono considerate più attente e preoccupate (o distratte) per la propria famiglia.

L’età più a rischio

Gli studi indicano che a subire maggiormente discriminazioni sono i lavoratori cosiddetti “più vecchi”, cioè nella fascia tra i 55 e i 64 anni, e quelli a metà carriera, i 45-54enni. Di fatto la generazione X, quella dei nati tra il 1965 e il 1980, li comprende entrambi. «Nel mercato del lavoro di oggi convivono stabilmente ben quattro generazioni, dalle classi del ‘50 e ‘60 fino ai più giovani nati dopo il 2000. Per superare gli stereotipi si dovrebbero appianare le differenze di competenze pratiche, ma anche esaltare la diversità di esperienze di un team intergenerazionale. In sostanza, fare formazione sulle hard skills perché tutti i collaboratori possano usare gli stessi strumenti di lavoro, e valorizzare le softs kills dei diversi gruppi d’età per migliorare il team», suggerisce Ceresa.

Più difficoltà per le donne

Le donne di questa fascia d’età, inoltre, sono nella condizione cosiddetta “sandwich”, schiacciate tra la cura dei figli ancora a casa e quella dei genitori anziani. Nel corso della loro vita lavorativa, poi, spesso sono costrette a lasciare temporaneamente il lavoro alla nascita dei figli o a entrarci più tardi, salvo poi incontrare più difficoltà proprio a causa della loro età più avanzata. «Secondo i dati Eurostat, i paesi con il tasso di occupazione femminile più alto sono anche quelli con tasso di fertilità più elevato. I problemi legati all’occupazione femminile sono pertanto da attribuire a motivi diversi, legati ad un retaggio culturale o alla presenza di opportunità di work-life balance non soddisfacenti», chiarisce Ceresa.

Quando ci si vergogna della propria età, anche professionale

Intanto, però, capita che alcuni lavoratori e lavoratrici senior arrivino a piccoli stratagemmi per nascondere o almeno non mostrare i riferimenti all’età o alle date in cui si sono compiuti gli studi per evitare di non essere presi in considerazione proprio a causa dell’anagrafe. Lo racconta la BBC, ma anche il Ceo Group di Randstad conferma: «A volte è capitato. Il mio consiglio è quello di valorizzare sempre il proprio profilo e le proprie esperienze. Noi lavoratori ‘senior’ abbiamo tanto da insegnare ma anche da imparare. Basta farlo senza pregiudizi e con rispetto delle esperienze di tutti».

Come riconoscere l’ageismo (e superarlo)

«L’ageismo si configura quando l’età anagrafica di una risorsa viene considerata più importante rispetto alle sue competenze e al suo valore potenziale. Per superarlo, è importante partire dalla promozione di una cultura che vada oltre gli stereotipi. In questo senso, una buona pratica per le aziende, ad esempio, è quella di favorire, attraverso momenti di scambio concreti, l’interazione e il dialogo intergenerazionale», spiega Ceresa. Per un lavoratore o lavoratrice non giovane, invece, Ceresa parla sempre di “talento” e consiglia: «È importante saper “affinare” le proprie skill al contesto di riferimento, partendo dalla consapevolezza dei propri punti di forza e dei propri punti di miglioramento. Per poter valorizzare la propria esperienza, sono comunque sempre fondamentali l’adattabilità e lo sviluppo di una flessibilità di apprendimento».