Ce le hai presenti anche tu? Quelle persone che alla domanda “Come stai?” rispondono con le stesse frasi di default. “Super impegnata”. “Sempre di corsa”. “Piena di cose da fare”. Niente di tutto ciò che c’è sulla loro agenda è procrastinabile, eccezion fatta per i pasti, il sonno e le relazioni sociali: di fronte ai loro sempre-urgenti-task di lavoro, non c’è materasso o amica che tenga. Triste, sì. Eppure, se ci fai caso, la risposta solitamente restituita a queste persone – con altrettanto automatismo – assomiglia più a un complimento che a un compatimento. “Almeno non ti annoi”. “Meglio così che il contrario”.
Cos’è il busy bragging
Busy bragging è il nome dato al fenomeno appena descritto, ennesimo termine inglese cool planato nel nostro vocabolario per etichettare qualcosa che cool non è. Letteralmente significa “vantarsi di essere impegnati” e indica la tendenza a sentirsi gratificati nell’avere un’agenda piena, tanto da volerla esibire agli altri come prova di una vita appagante. Funziona quindi come una sorta di manifestazione d’orgoglio, mascherata però da lamentela: “Ieri ho finito di lavorare a mezzanotte”, “Ormai non ho tempo neppure per mangiare”.
I motivi del busy bragging
Ma perché si fa a gara per chi ha la vita più frenetica? «Da un lato ci sono le motivazioni individuali: alcune persone rincorrono grandi mete, per altre la “busyness” costituisce la propria identità agli occhi degli altri e la necessitano per sentirsi speciali, apprezzate», mi spiega Luca Mazzucchelli, psicologo, divulgatore e imprenditore. «Dall’altro bisogna riconoscere anche l’esistenza di una cornice sociale e culturale che tende a valorizzare le persone che hanno tanto da fare, dipingendole come più desiderabili e meritorie». Questo ha profondamente contagiato il modo in cui ci approcciamo al nostro lavoro e ne dosiamo il tempo.
Il punto di vista della Gen Z
«Non so perché l’ho fatto. So solo che quando in azienda mi è stato proposto di lavorare a un side project, a cui dedicarmi dopo le otto ore di ufficio, io ho accettato. Sentivo il desiderio di fare di più, di riempire per riempirmi. Proprio questo strano desiderio a un certo punto mi ha spaventata e fermata. Mi sono chiesta: e se dopo le 18, qualche volta, volessi annoiarmi, prendermi del tempo per me, non fare nulla?».
Sharon ha 26 anni e da cinque lavora a Milano nell’ambito della comunicazione. Quando le chiedo che rapporto abbia con il lavoro e i suoi tempi, mi racconta: «Ora come ora non mi sento oberata. Ho tanti impegni, ma non sono tutti lavorativi. Anzi spesso sono io stessa ad aggiungerli all’agenda, perché ci sono milioni di attività ricreative a cui vorrei dedicarmi nel mio tempo libero. Il lavoro però c’entra poco. Del resto, per quanto sia importante, credo che la mia professione non determini la persona che sono». Per questo motivo Sharon ha abbandonato quel side project e ha scelto di disattivare le notifiche di Teams oltre l’orario lavorativo. «Mi aiuta a mettere dei paletti e ad essere più serena. Prima capi e colleghi mi scrivevano la sera, violando un tempo e uno spazio solo miei. Se non è un’urgenza, credo possa aspettare il tempo di una notte».
Dal busy bragging allo stresslaxing
Nelle parole di Sharon risuonano anche quelle di Martina, ricercatrice scientifica sambenedettese di 28 anni. «Nel mio ambito professionale il lavoro viene identificato come una passione assoluta, ciò che più ti rappresenta nel mondo. Tante volte ho pensato di essere una scienziata sbagliata per il fatto di non lavorare nel weekend e la sera come gli altri. Anzi, quando mi capitava di uscire dal laboratorio alle 21 era come se mi sentissi più identificata in mezzo a loro, più accolta. Pensavo di dover mostrarmi sempre disponibile per essere percepita come valida». «Poi – continua Martina – a spese “umane” ho maturato la consapevolezza che potevo sì fare questo lavoro, e anche con grande passione, ma senza essere il mio lavoro». Recintato il tempo professionale, non è facile nemmeno fare altrettanto con quello per sé. «Ora mi rimane il problema di diluire il tempo libero: tornata dal laboratorio, infatti, cerco comunque altro da fare, ci sono troppe belle cose a cui vorrei dedicarmi. Non riesco a fermarmi o, se lo faccio, mi sento in colpa e inizio a provare stresslaxing». Un’altra parola inglese “cool”, rovescio della medaglia del busy bragging, che indica l’ansia che spunta quando si tenta di prendere fiato, non solo dal lavoro.
Il lavoro per Boomers e Gen X
Una tensione che, nel caso della terza voce amica, è andata ridimensionandosi nel corso del tempo: «La consapevolezza dei 50 anni unita all’energia dei 30 è il mix perfetto», esordisce. «Ho sempre lavorato, fin dai tempi dell’università, per essere indipendente. Mia mamma mi suscitava compassione, perché doveva chiedere soldi a mio papà per ogni cosa. Quel chiedere continuo mi ha segnata», mi racconta Loredana alla soglia dei 50. Bresciana, mamma di due figli, è avvocato libero professionista e docente di diritto ed economia alle scuole superiori. «Se l’indipendenza economica è ciò che mi ha fatto iniziare, a farmi continuare è stata la gratificazione personale. Lavorare per me significa restare in contatto con le persone, imparare sempre qualcosa di nuovo, mettermi in gioco». Ma non è sempre stato solo questo.
«Soprattutto all’inizio sentivo la necessità di dimostrare che sapevo svolgere bene il mio lavoro anche in quanto donna. Quando ero già neo-avvocata, mi chiamavano “segretaria”; ancora oggi c’è chi ripiega su “dottoressa”. Ho lavorato tanto, anche restando in ufficio fino alle nove di sera, con quelle superiori avvelenate che avevano fatto il triplo della mia fatica, sgomitando in un ambiente lavorativo considerato tipicamente maschile». «Quando ero più giovane – continua Loredana – e con i bambini più piccoli, provavo ansia per tutto quello che dovevo incastrare. Oggi guardare la mia agenda cartacea piena di appunti mi fa stare bene, perché è questo pragmatismo a facilitare la mia organizzazione. Ma mi capita ancora di sentirmi sovraccaricata: in quei momenti, al netto delle scadenze, cerco di essere un po’ più “egoista”. Noi siamo cresciuti con l’idea di mettere sempre al primo posto il lavoro; adesso che ho 50 anni cerco anche di metterlo da parte ogni tanto. Per stare bene con me stessa e con chi mi sta accanto».
È una questione generazionale?
Mentre ascolto Loredana assemblare la sua autodiagnosi, non posso che fare altrettanto. Io che di anni non ne ho 50, ma 23. Io che, grazie a donne come lei, ho forse meno stereotipi da spazzare via ma più argini da costruire per restituire terreno al tempo libero. L’età in questo che ruolo gioca? Mi domando: se ne può fare una lettura generazionale? In cosa io, Sharon e Martina siamo diverse da Loredana?
La Gen Z ha messo in ginocchio gli HR
A rispondere ai miei interrogativi è Fabiana Andreani, content creator e specialista in orientamento e lavoro per under 35. «Il busy bragging nasce dalla cultura lavorativa degli anni Ottanta e Novanta, quella in cui il lavoro era il centro degli interessi personali, ciò che più di tutto dava identità, riconoscimento sociale, prestigio. Per generazioni come la X o i Baby Boomer, il lavoro era qualcosa non solo da fare e onorare, ma anche da esibire. Insieme al job title, all’azienda prestigiosa, all’abito, ma soprattutto a uno stile lavorativo impegnato fatto di lavoro extra considerato normalità». «Poi – continua Andreani – ci si è iniziati a chiedere: cosa mi fa stare bene? Cosa voglio davvero? Questo è ciò che ha fatto entrare in crisi quei modelli lavorativi fondati sulla presenza e sul sacrificio».
Non a caso, continua Andreani, «una volta il direttore delle risorse umane di un’importante società di consulenza mi disse: “La Gen Z ha messo in ginocchio noi HR”. Perché chiede lo smartworking, perché guarda tutto l’insieme, perché rifugge dai ruoli una volta considerati prestigiosi, preferendo le startup alle big. Per quanto le persone super competitive non stiano certo scomparendo, quello che noto è che i giovani oggi tendenzialmente si avvicinano alla ricerca del lavoro con molta più attenzione al tipo di formazione che riceveranno e al tipo di rapporto che avranno con l’altro, capo o pari che sia. Per loro il lavoro non è più qualcosa da esibire, ma qualcosa da sentire». Se il posto fisso non lo avremo mai, tanto vale averne uno variabile ma che ci faccia stare bene: un cambio di prospettiva sostanziale.
Non sempre si può dire “adesso smetto”
Anche se, dice Sharon, «non generalizzerei troppo. Mi capita spesso di vedere giovani e giovanissimi fare gli workaholic, seguendo le orme di capi e colleghi iper impegnati». «Un po’ come – aggiunge Martina – io invece vedo mio padre, architetto libero professionista, lavorare fino a tardi e pure nel weekend. Credo che molto dipenda dal settore in cui si lavora e dal ruolo che si ha. Semplicemente, ci sono lavori in cui è più facile dire “adesso smetto”». Martina ha indubbiamente ragione: le responsabilità chiamano tempo. Ma anche consapevolezza e obiettività: questo messaggio lo devo mandare proprio adesso? Domenica devo davvero aprire il computer? Le risposte non possono essere sempre sì. «L’urgenza costante non dovrebbe diventare la normalità», puntualizza Andreani. «Forse si tratta di valutare quanta frustrazione si prova quando la giornata o la settimana finiscono. Se non hai mai potuto dedicare tempo a quelle che consideri le priorità della tua vita, allora forse hai un problema», riflette Martina.
Meno busy bragging, più amor proprio
Un conto è avere l’agenda piena perché si hanno delle responsabilità oggettive. Un altro è trarne piacere, indossare i propri impegni al collo come medaglie d’onore, ritenere il workaholism la più importante misura della propria realizzazione. Il punto allora forse non è solo l’essere troppo impegnati, ma pensare di avere un certo valore come persone in virtù della densità del proprio Google Calendar. All’inizio gli slot che si sovrappongono inebriano, poi diventano pericolosi se, tra gli altri impegni, non ci si prende anche quello di fermarsi e riposare.
«Il busy bragging racchiude tutto ciò che le aziende oggi vogliono evitare di trasmettere», spiega Fabiana Andreani. «Se non c’è work-life balance, le persone si dimettono. Non sempre e necessariamente perché “impazziscono”, ma perché hanno preso una scelta precisa: la mia salute è più importante». E perché per quanto si travesta da bello e ordinato arcobaleno, il burnout rimane burnout. Allora, mentre aggiungi colori al tuo calendario, anche se ti sembra inutile o superfluo, ogni tanto ricordati del pastello bianco. Tanto dentro quanto fuori il lavoro. In un mondo in cui a volte sembra più faticoso imporsi di prendersi delle pause piuttosto che imporsi di lavorare, rallentare è il vero atto di coraggio. E amor proprio.
3 modi per rallentare
Sembra difficile farlo, quando sei di corsa. Ma è proprio quello che serve. Ecco i primi passi da compiere secondo lo psicologo Luca Mazzucchelli.
- FAI LA LISTA DELLE PRIORITÀ AL LAVORO. Sembra scontato, non lo è. Per una gestione del tempo efficace, devi individuare ciò che è davvero importante e dedicargli le ore più produttive.
- SVUOTA IL TEMPO LIBERO. Spesso più tempo si ha fuori dal lavoro, più lo si occupa con altri impegni. Il punto quindi è fare in modo che sia davvero libero. Rivedi la tua definizione di successo, e intendilo come “ciò che vuoi far succedere, perché tu possa considerarti appagato”. Dovresti chiederti: cosa vuoi far succedere tra te e i tuoi figli? Tra te e tuo marito/moglie? Tra te e la società?
- PIANIFICA I MOMENTI CHE CONTANO. Perché mettere in agenda l’appuntamento dal meccanico o dal commercialista, ma non il tempo di qualità da passare con i nostri figli o la lezione di Pilates per la nostra salute? Al netto dei necessari compromessi, un buon time management è un tempo a disposizione dei tuoi valori.