Si chiama task masking e letteralmente significa mascherare la propria attività in ufficio come se si fosse oberati di lavoro, quando in realtà non è così. Un fenomeno in crescita, come dimostra il fatto che il termine è virale su TikTok. Riguarda soprattutto la Gen Z, ma non risparmia neppure gli over 40 e 50, insomma Millennials e Gen X, con sfumature differenti.
Cos’è il task masking
Per task masking si intende quel comportamento per cui si simula una mole di lavoro da dover svolgere in ufficio, in realtà amplificata al solo scopo di mostrare di essere produttivi. Secondo gli esperti è un fenomeno che è cresciuto soprattutto dopo il ritorno al lavoro in presenza, al termine della pandemia e del ricorso massiccio allo smart working. La conferma del boom arriverebbe da un sondaggio, condotto da Workhuman, da cui emerge che il 36% dei dipendenti finge di essere oberato da scadenze e progetti da portare a termine, per il solo motivo di voler evitare ulteriori carichi e burnout conseguente.
Il tentativo di evitare troppo stress
Si tratterebbe, quindi, di un tentativo di evitare un eccesso di stress, dovuto alla sensazione di dedicare troppe energie al lavoro, a discapito della vita privata. È, dunque, una risposta a quella ricerca di nuovi equilibri nata dopo la pandemia, il work life balance, che interessa soprattutto le giovani generazioni. Non a caso il tema è particolarmente sentito sui social e, soprattutto, su TikTok, dove abbondano video virali che sono veri e propri tutorial su come fingere di essere super impegnati.
Task masking: boom di video tutorial su TikTok
Tutti i video sono accomunati dall’hashtag #TaskMasking e, secondo un calcolo effettuato da Entrepreneur, sono arrivati a superare 1,1 milioni di visualizzazioni tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025. Qualche esempio di come rendere l’idea di lavorare sodo? Uno dei più ricorrenti è camminare velocemente in ufficio, come si fosse costantemente di fretta e non si volesse perdere un solo minuto di tempo prezioso. Oppure, tra i suggerimenti più ricorrenti, c’è di picchettare rumorosamente sulla tastiera, o sbuffare ed emettere suoni che indichino frustrazione provata.
I suggerimenti degli esperti su come “fingere” di lavorare
Addirittura qualche “guru” consiglia di ripetere le operazioni in questione ogni 10 o 15 minuti. Che dire poi delle finte chiamate a clienti o colleghi, mentre in realtà si parla con amici o parenti? O di chi si limita a muovere il mouse, fissando lo schermo con attenzione, mentre in realtà legge contenuti privati o si dedica a “passatempi” online? Non va poi dimenticato chi racconta di metodi personali, che risulterebbero efficaci, come lo sfogliare il block notes alla ricerca di appunti in realtà inesistenti. Insomma, l’arte di fingere non avrebbe limiti, se non quelli etici.
Salvaguardare il proprio benessere o imbrogliare il capo?
Non manca, infatti, chi si interroga sulla correttezza di questo comportamento, specie quando fa ricorso a software, acquistabili a poco più di 10/15 euro, in grado di muovere il mouse anche in assenza del lavoratore, in modo da simulare la sua attività al pc anche quando magari lui o lei si alzano per una pausa caffè o per due chiacchiere con i colleghi. Si tratta dei cosiddetti jiggler o mouse shuffler, che pongono una questione etica. «In realtà non solo non ci si comporta correttamente con l’azienda, fingendo di lavorare quando non lo si fa, ma è un autosabotaggio anche per il lavoratore: è frustrante passare tante ore in ufficio ed essere valutato solo per quanto si appare impegnati e non per ciò che realmente si fa», spiega la career coach Irene Bosi.
Il task masking e le generazioni
Come detto, il fenomeno riguarda soprattutto la Gen Z, che sembra meno “votata al sacrificio” e alla dedizione al lavoro rispetto alle generazioni precedenti (o forse ha solo una diversa concezione di ambizione?). Sono loro, infatti, a vivere con maggiore sofferenza l’obbligo di trascorrere un certo numero di ore in ufficio. «A soffrire sono i più giovani. In realtà, però, è sempre accaduto che qualcuno fingesse di darsi da fare quando non era così, soprattutto perché in passato era una norma trascorrere la maggior parte della giornata in ufficio. Oggi ci sono opportunità diverse, si può essere creator da remoto o digital nomads, per cui si gestisce anche il tempo della vita privata in modo differente», osserva Bosi.
Conta ancora il tempo trascorso alla scrivania?
Si potrebbe scomodare il vecchio buon Fantozzi che, con i colleghi, attendeva le 5 del pomeriggio (magari fingendo di lavorare mentre giocava a ping-pong di nascosto!) per lasciare l’ufficio di corsa, ma pur senza estremizzare il concetto non cambia: «La differenza è che all’epoca non c’erano alternative: le aziende avevano un approccio rigido. Oggi, invece, molte realtà offrono la possibilità di essere valutati in base agli obiettivi raggiunti, non al tempo trascorso alla scrivania. Fino a qualche tempo fa c’era ancora l’idea che l’ultimo che lasciava l’ufficio era anche il più “bravo”, che lavorava di più», sottolinea l’esperta, che è anche event director e docente in questo settore. Purtroppo questo stereotipo è duro a morire anche oggi.
Più ore lavori, più sei bravo: gli stereotipi resistono
«Nella mia esperienza – ma i dati sembrano confermarlo – l’idea di doversi recare in ufficio e trascorrervi molte ore è ancora dominante, come se questo fosse il parametro per valutare la produttività. Io ho lavorato in multinazionali anche in Spagna e lì vale il concetto opposto: sei tanto più bravo quanto più riesci a portare a termine il suo compito in meno tempo, per poi vivere la tua vita privata in modo più pieno», prosegue Bosi. Tra l’altro questo è considerato un valore aggiunto, una skill: «Una donna che sia anche madre, che possa e riesca ad avere modo di praticare sport o dedicarsi ad attività come il volontariato o hobby è ritenuta ancora di più una professionista, perché la diversità di esperienze arricchisce anche l’azienda per la quale si lavora».
I giovani scelgono lavori più appaganti
L’approccio al mondo del lavoro da parte della Gen Z, dunque, è diverso e spiega anche l’aumento di fenomeni come quello del task masking, in chiave moderna: «Le possibilità della Gen Z sono oggi molto più ampie: si possono scegliere percorsi lavorativi più innovativi o più tradizionali. Paradossalmente, proprio la vastità di offerta è tale che talvolta i giovani sono più paralizzati. Scegliendo strade più tradizionali, però, possono incappare in quella frustrazione che li può portare a comportamenti “evitanti” come quello del task masking: il consiglio è di valutare bene cosa li appaga maggiormente, anche in termini di work life balance», conclude Bosi.