Stipendi inadeguati, mansioni spersonalizzanti, posti messi a rischio da robot… Oggi tanti ambienti di lavoro sono fucine di un malessere profondo. Con rigore scientifico (attingendo a studi e ricerche) e spinta emotiva (ascoltando la voce di persone di varia età e professione), Irene Soave, giornalista del Corriere della Sera, ha indagato questa fragilità in un saggio appena uscito: Lo statuto delle lavoratrici (Bompiani).
Un Paese sessista
Perché ha scelto questo titolo?
«Quando è stato approvato, nel 1970, lo Statuto dei lavoratori era la legge a tutela dei lavoratori più avanzata d’Europa. Partiva dal presupposto che il datore di lavoro fosse in vantaggio e quindi occorressero più tutele per il lavoratore. Ha sancito diritti che a noi paiono ovvi ma non lo erano, per esempio che non si venga perquisiti all’uscita dall’azienda o che al colloquio d’assunzione non ti chiedano se sei sposata. Ancora oggi però tanti di quei diritti non sono attuati, basta pensare agli straordinari non pagati».
E perché si riferisce in particolare i diritti delle lavoratrici?
«Io ho un lavoro fortunatissimo e stabile in una grande azienda, ma i 3/5 della popolazione lavorativa femminile non è in questa condizione. In Italia le donne sono quelle con più fattori di debolezza: la difficoltà nel conciliare lavoro e famiglia, il divario salariale, gli ambienti di lavoro molesti. Un Paese che rende impossibile lavorare a metà della sua popolazione non è solo sessista, è anche non democratico».
I diritti delle lavoratrici (e dei lavoratori)
I problemi, però, non riguardano solo le donne.
«Certo. Ora molti uomini non vogliono più essere il capofamiglia che ha una moglie che stira le camicie e guarda i bambini così lui fa carriera. Risolvere i problemi che tengono le donne lontane dal mondo del lavoro migliorerebbe la situazione di tutti. Anche gli uomini vorranno tornare a casa prima delle 9 di sera…».
Ma solo le donne sono accusate di “ingordigia”.
«Resiste uno stigma tacito sulle donne che fanno figli a 40 anni: hanno “voluto avere tutto”, un lavoro appagante ed essere madri. Questo stigma sull’uomo mica c’è. L’unica ingordigia contro la quale nessuno ha niente da dire è quella delle aziende rispetto ai loro lavoratori. Un’ingordigia considerata naturale: fare di più è sempre bene, non importa a spese di chi».
Non conta solo la produttività
Cita la parabola evangelica di Marta e Maria. Cosa ci dice oggi?
«Fa riflettere sull’importanza di ciò che non è produttivo. Quando Gesù arriva nella loro casa, Maria sta ferma, Marta invece si dà molto da fare. Ma Gesù ribadisce il primato della vita contemplativa su quella attiva. Non è detto che questo valga in ogni circostanza, però oggi conta solo la produttività, non altri valori socialmente importanti. Vari psicoterapeuti mi hanno spiegato che i problemi maggiori li ha chi non ha un lavoro, perché questo ti dà un’identità. Se però il lavoro non è per niente gratificante, molti – e soprattutto molte – vi rinunciano. Così perdono l’indipendenza economica e quel bene intangibile legato alla percezione del proprio ruolo nella società».