La salute mentale dei lavoratori peggiora. A dirlo sono i dati, come quelli di un recente report di Gallup, da cui emerge che secondo quasi 8 dipendenti su 10 l’azienda dove lavorano non si occupa del loro benessere. Eppure le stime indicano anche che nel mondo del lavoro si è investito qualcosa come 70 miliardi di dollari a sostegno del cosiddetto “welfaree in particolare del bilanciamento casa-lavoro. Ma allora perché non se ne vedono i risultati? Il timore è che si tratti solo di carewashing ossia di operazioni di facciata poco concrete.

Cos’è il carewashing

Il termine carewashing indica il divario che viene percepito tra le intenzioni dei datori di lavoro (a volte solo sbandierate) e le reali politiche messe in atto per migliorare il benessere nelle aziende. Qualche esempio? Orari flessibili, lavoro ibrido, iniziative sostenibili sono alcuni dei valori che spesso sono sottolineati dai recruiters in fase di selezione del personale, come possibili punti di forza per attrarre i candidati. Spesso, però, si scopre solo una volta sul posto di lavoro che tutte le iniziative di benessere presentate sulla carta rimangono tali, un po’ come accade con il greenwashing, cioè la presunta applicazione di pratiche ecosostenibili. Il risultato sono delusione e insoddisfazione da parte dei lavoratori, ma anche stress e ansia che non giovano neppure alla produttività.

Lavoratori sempre più frustrati dal carewashing

Sempre secondo il sondaggio Gallup, negli ultimi anni, si registrano quotidianamente livelli sempre più elevati di emozioni negative sul posto di lavoro: circa 4 persone su 10 lamenta, infatti, di vivere sotto stress (41%) o in condizioni di preoccupazione (38%); per oltre 5 su 10 invece, il lavoro è accompagnato da tristezza (22%) e rabbia (21%). Insomma, non c’è alcuna traccia del cosiddetto concetto di work-life balance, che invece molte aziende dichiarano di considerare una priorità.

Prima e dopo la pandemia

Da questo punto di vista la pandemia ha rappresentato uno spartiacque. Se durante il lockdown lo smart working è stato una necessità (spesso vissuta negativamente, in quanto costrizione a restare a casa), il lavoro da remoto è poi stato paradossalmente rimpianto una volta tornati ai ritmi quotidiani in ufficio. La sensazione più diffusa tra i lavoratori, infatti, è che gli impegni aziendali a favorire il benessere, pur a fronte di maggiori investimenti finanziari, non si traducano nella realtà: se nel 2020 il 49% si riteneva soddisfatto del welfare aziendale, nel 2024 la percentuale si è più che ridotta, scendendo al 21%.

Carewashing in aumento: solo il 10% dei leader lo fa davvero

Il fenomeno del carewashing è dunque diffuso, come conferma anche l’ultimo rapporto Global Human Capital Trends realizzato da Deloitte. Emerge che solo 1 azienda su 5 mette in pratica realmente politiche che promuovano il work-life balance. Per farci spiegare il fenomeno abbiamo raggiunto Matteo Zanza, Human Capital Leader di Deloitte: «Il carewashing è un tema sempre più discusso, sia in Italia che a livello internazionale. Questo accade perché l’equilibrio tra vita privata e lavoro è diventato un elemento fondamentale per le persone e spesso le aspettative non coincidono con ciò che viene effettivamente realizzato. Anche il report Global Human Capital Trends sottolinea che il 60% dei leader aziendali sa che è necessario implementare iniziative di promozione del benessere e caring, ma solo il 10% lo fa davvero».

I settori e le età più interessati

«Dal Global Human Capital Trends di quest’anno emerge che il fenomeno interessa diversi settori, tra cui quello tecnologico, dei servizi professionali e quello industriale», spiega ancora Zanza. Ma ciò che colpisce è che si tratta di una tendenza che ha a che fare anche con il fattore età: «Indipendentemente dal settore, ciò che emerge come rilevante è una focalizzazione delle iniziative su alcuni segmenti della popolazione aziendale e in particolare sulle generazioni più giovani, Millennials e GenZ». I giovani, quindi, si confermano più sensibili alla qualità della vita e al benessere sul posto di lavoro.

Cosa conta davvero nel lavoro

Se in passato il lavoro era visto molto spesso come una mera fonte di guadagno, col tempo sono entrati in gioco anche altri fattori: «Il nostro report evidenzia l’importanza crescente della sostenibilità legata alla persona all’interno delle strategie aziendali, superando la tradizionale attenzione solo a profitto e ambiente. Il trend della “Human Sustainability” mette le persone al centro, rispondendo a dati preoccupanti: il 46% dei giovani lavoratori considera inaccettabile il proprio livello di stress e molti sarebbero disposti a cambiare lavoro per priorità legate al benessere personale. Tuttavia, solo il 49% ritiene che la propria azienda stia realmente agendo sulla salute mentale», spiega Zanza.

Uomini e donne al confronto

Un’altra differenza riguarda il genere e le aspettative (o le esigenze?) tra uomini e donne: «Diversi studi lo confermano. Ad esempio, le donne apprezzano particolarmente misure come la flessibilità oraria, i servizi per la cura dei figli o degli anziani e le iniziative di supporto per il benessere, poiché spesso si trovano a sostenere maggiori responsabilità familiari rispetto agli uomini», conferma Zanza. Questa disparità nella percezione delle priorità indica che «nonostante molte aziende adottino iniziative di caring, è necessario un ulteriore sforzo per rendere queste politiche visibili e accessibili a tutti i dipendenti».

Come migliorare il benessere dei lavoratori

«Dallo studio emerge che le organizzazioni dovrebbero coinvolgere i lavoratori nella progettazione delle politiche lavorative, misurare i risultati con metriche più orientate alla persona, inclusi benessere e obiettivi», spiega Zanza. Coinvolgimento nelle strategie aziendali, trasparenza, ma anche risposte personalizzate a seconda delle esigenze e compatibilmente con la fattibilità sono alcuni degli interventi che potrebbero migliorare il bilanciamento vita-lavoro, insieme a investimenti di lungo periodo che invece ancora mancano. Al momento, invece, esistono certificazioni come la ISO 9001 o, per esempio, la UNI/PdR 125:2022 per la parità di genere, ma spesso rimangono soprattutto attestati teorici da esibire da parte dell’azienda.

I vantaggi del benessere lavorativo (anche per l’azienda)

Spesso, infatti, gli stessi datori di lavoro non si rendono conto dei benefici, anche in termini produttivi, che un migliore ambiente lavorativo può portare alla produttività dell’azienda: «Le aziende che attivano questo tipo di iniziative vedono un miglioramento delle performance di circa il 20% della produttività complessiva, grazie a maggiore collaborazione e innovazione – conferma Zanza – Le organizzazioni che investono nella sostenibilità umana ottengono vantaggi anche in ottica di attrazione e fidelizzazione dei talenti, migliorando quindi il benessere lavorativo e la produttività».