Nelle ultime ore si parla sempre più di frequente di lavoro, soprattutto tra i giovani. Ma con una novità: ora non solo lo si cerca sui social, su TikTok e su LinkedIn, ma proprio qui impazza l’hashtag #desperate, con tanto di banner sui profili di chi spulcia gli annunci di impiego. A lanciare la tendenza, che ha subito preso piede, è stata Courtney Summer Meyers, che he deciso di non nascondersi più: quella del lavoro è una ricerca “disperata” per molti ragazzi e ragazze della Gen Z. Che, però, secondo una ricerca, affrontano la vita professionale in modo diverso dalla Gen X e dai Millennials.
I giovani “disperati” che cercano lavoro
Scordiamoci la ormai già vecchia formula “open to work”. Adesso chi non ha un lavoro ne è alla “disperata ricerca” e non esita a farlo sapere tramite le proprie bacheche. In particolare su LinkedIn, infatti, la rossa Courtney Summer Myers, 28 anni, che ha studiato per diventare grafic designer e illustratrice, ha deciso di uscire allo scoperto: «Si è parlato molto di come il banner #OpenToWork scoraggi reclutatori e responsabili delle assunzioni, perché ti fa sembrare disperato – ha scritto Myers – Francamente, essendo vittima di licenziamento, sono disperata e non credo che ci sia nulla di cui vergognarsi».
Basta vergognarsi di cercare lavoro
Per Courtney Summer si è trattato, in realtà, di una scelta “obbligata”: licenziata un anno fa, ha presto esaurito il compenso di indennità di fine rapporto, presentando nuove domande di lavoro a circa 700 aziende, ricevendo però risposte solo dal 10% di queste. Per questo ha reagito, soprattutto all’idea che ci si debba vergognare di sentirsi frustrati quando non si trova lavoro. Un primo risultato, in effetti, lo ha ottenuto: è bastato un mese di banner in bella mostra per ricevere oltre 400mila reazioni e più di 10mila richieste di connessione a LinkedIn, con altrettanti messaggi diretti.
Generazioni a confronti: Gen Z, Millennials e Gen X
La domanda, dunque, è duplice: è sbagliato ammettere la difficoltà nel trovare un’occupazione oppure i giovani hanno difficoltà quando devono comunicare proprio in ambito lavorativo? Una risposta arriva da una ricerca recente, condotta per conto di Reverse, società internazionale di headhunting e risorse umane, a un centinaio di HR Manager, dunque esperti nella selezione del personale. L’obiettivo era capire se esista un divario intergenerazionale tra i Gen Z (nati tra il 1997 e il 2012), appunto, e i Millennials (nati tra l’inizio ’80 e metà degli anni ’90). È emerso che quasi il 57% dei reclutatori percepisce un’elevata o molto alta difficoltà comunicativa con la Gen Z.
Quali sono i problemi della Gen Z col lavoro
Come spiegano gli esperti di Reverse, il principale ostacolo sembra rappresentato dalle aspettative nei confronti del lavoro. «I giovani della Gen Z si possono dividere in due gruppi: una che non ha lavoro e non lo cerca, i cosiddetti NeNe, l’altra che invece ha le idee molto chiare e ha forti ambizioni, che vorrebbe tutto e subito, con un feedback immediato al proprio impegno. Le aziende in genere hanno a che fare con questo secondo cluster, che ha obiettivi precisi: per fare un esempio, se la Gen X (i nati tra il ’65 e l primi anni ’80) dava per scontato di dover o poter lavorare anche più ore non appena assunto, oggi i giovani sono meno propensi, a meno che non si abbia la prospettiva di un ritorno a stretto giro», spiega Silvia Orlandini, Chief People Officer di Reverse.
I giovani della Gen Z puntano a risultati immediati
«Un modo per esemplificare le differenze generazionali è il concetto di investimento a fondo perduto: la Gen X era disposta a investire maggiormente sul lungo periodo, a lavorare anche di più all’inizio, con la prospettiva di ottenere poi un risultato negli anni a venire. Oggi, invece, la Gen Z si aspetta un riscontro in un tempo molto inferiore. Per esempio, si può essere disponibili a una trasferta più lunga o a lavorare per più di 8 ore, ma solo a fronte di un ritorno nel breve termine. Sono giovani più immediati, sia negli aspetti positivi che negativi: se commettono un errore, per esempio, vogliono sapere subito come migliorare; ma nello stesso tempo sono meno disposti a fare fatica e sacrificarsi se non ne vedono un’utilità diretta. Questo è anche legato al fatto che avvertono l’esigenza di un maggior bilanciamento tra la vita privata e quella professionale», aggiunge Orlandini.
Più peso alla vita privata per la Gen Z
La Gen Z, infatti, dà molta più importanza all’equilibrio tra la vita lavorativa e quella privata: «Oggi ci sono moltissimi giovani che avviano start up e rappresentano un altro gruppo ancora rispetto ai due precedenti. Ma anche loro, come si può vedere da social come LinkedIn, prestano molta attenzione al bilanciamento tra lavoro e vita privata: l’idea è che il business non deve togliere tempo alla sfera personale – spiega l’esperta – I giovani mettono più divertimento nel lavoro, cercano maggiore realizzazione nel lavoro, mentre la Gen X lavorava soprattutto per senso del dovere. Oggi vediamo più allineamento tra chi si è nella vita personale e in quella lavorativa».
Cosa conta per i lavoratori della Gen Z
Nella ricerca di un lavoro, quindi, si presta molta più attenzione al numero di ore di impiego richiesto, alle possibilità di carriera, al benessere che il lavoro può offrire e alla qualità di vita. «È molto più difficile trovare giovani che si “immolino” per il lavoro e chi lo fa è visto come una mosca bianca. In compenso, però, sono anche più attenti all’impatto delle professioni sull’environment, dunque alla sostenibilità non solo privata, ma anche ambientale», spiega Orlandini.
Alla ricerca del lavoro ideale
Una conseguenza è che la stabilità lavorativa non è più una priorità: oggi i giovani in cerca di lavoro non puntano più al posto fisso, ma danno importanza soprattutto a una corretta retribuzione e alla possibilità di fare carriera. «Il cambio di prospettiva, il desiderio di riscontri immediati, porta a cambiare lavoro con molta maggiore facilità e frequenza se i propri obiettivi non sono soddisfatti. Se non si trova ciò che si vuole, si cambia. Tra l’altro oggi i giovani hanno anche a disposizione molti più strumenti per cercare un nuovo impiego, c’è più visibilità, anche grazie a strumenti come LinkedIn che consentono di raggiungere le persone più facilmente», sottolinea l’esperta.
Come intercettare giovani lavoratori
La tecnologia e i social, infatti, «permettono di crearci il nostro self brand, sia nella vita professionale che personale. Noi possiamo costruire la nostra immagine e renderla pubblica, e questo può aiutare le aziende a incontrare i potenziali candidati, ma anche viceversa. Anche i datori di lavoro, infatti, devono adeguarsi a un nuovo modo di comunicare ai giovani, diventando più attrattivi: ci sono molte aziende, ad esempio, che possono offrire grandi opportunità, ma magari hanno un sito internet che non è adeguato», spiega Orlandini. Alcuni strumenti, inoltre, consentono maggiore comunicazione una volta assunti: piattaforme come Slack e Microsoft Teams (ritenute efficaci dal 67% degli HR manager) e software come 15Five, Lattice, BambooHR (38%) permettono di avere quel feedback immediato e quel tipo di comunicazione diretta che i giovani cercano», aggiunge Orlandini.
La “fuga di cervelli” è davvero un problema?
Una delle sfide di oggi, dunque, è evitare la cosiddetta “fuga di cervelli”. Si stima, infatti, che l’incapacità di trovare un lavoro soddisfacente o la sua indisponibilità sia alla base dell’emigrazione dei giovani all’estero, con oltre 100mila ragazzi e ragazze che hanno lasciato l’Italia tra il 2022 e il 2023. «Va sfatato, però, il mito secondo cui i giovani lasciano l’Italia solo per mancanza di lavoro: spesso vogliono solo fare esperienze all’estero. Certo gli stipendi in Italia, a parità di mansioni e ruolo, sono spesso inferiori, soprattutto da junior mentre la forbice si va assottigliando per i profili senior. Diciamo che il problema è più sentito in certi ambiti, come quello della ricerca, ma non si dovrebbe generalizzare».
Come superare gli ostacoli
Secondo i reclutatori, dunque, occorrerebbe adattare le ricerche di lavoro (e le offerte) in base alla generazione delle persone coinvolte, dando maggior perso alle politiche di lavoro flessibile (70%), alla pianificazione della carriera (59%), alla formazione (40%), a iniziative di team building (35%) e a progetti di innovazione e tecnologia (33%). Anche la creazione di team misti, con componenti di età diverse (42,6%), può essere utile, insieme a programmi di mentorship (26,6%) e corsi di formazione (13%) sulla comunicazione intergenerazionale. Un dato, infine, dà speranza: quasi il 60% degli intervistati ritiene che le nuove professioni favoriranno l’innovazione e l’apprendimento reciproco.