Un rapporto di coppia in profonda crisi: è quello tra lei-azienda e lui-lavoratore, ma ovviamente anche lavoratrice. Dall’epoca in cui si celebrava una sorta di matrimonio suggellato con l’implicita reciproca promessa «di restare l’un l’altra fedeli finché pensione non ci separi», siamo passati ai giorni nostri dove la relazione – spesso già instabile e sbilanciata – implode. A tracciare un parallelo tra i mutamenti nel ménage familiare e quelli nelle vicissitudini professionali è la sociologa Francesca Coin nel suo ultimo saggio: Le Grandi Dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi).
Grandi Dimissioni: parla la sociologa
Cosa sono le Grandi Dimissioni?
«È il fenomeno che ha indotto milioni di persone a lasciare il lavoro alla fine della pandemia. Dagli Stati Uniti alla Cina, dal Regno Unito all’India, assistiamo a processi simili tra loro. Solo negli Usa hanno deciso di licenziarsi 48 milioni di persone nel 2021 e oltre 50 milioni nel 2022.In Italia, le dimissioni volontarie hanno sfiorato i 2 milioni nel 2021 e hanno superato tale soglia nel 2022. E sono cifre che non tengono conto di esperienze che non vengono intercettate dai dati ufficiali: chi rifiuta proposte inadeguate, chi opta per il prepensionamento, chi decide di non rinnovare un contratto a termine, chi abbandona un lavoro in nero».
Nel libro ne parla come di uno “sciopero generale non dichiarato”.
«La definizione è di Robert Reich, ex ministro del Lavoro americano. È ciascun lavoratore a decidere per se stesso anche se in modo simultaneo ad altri. Capita spesso infatti, per esempio negli Stati Uniti, che molte persone nello stesso luogo di lavoro si dimettano nello stesso giorno, ma non c’è un’organizzazione dietro».
Che cosa non ha funzionato?
«Le Grandi Dimissioni sono sintomo di un doppio fallimento: i sindacati non sono riusciti a organizzare il lavoro e le aziende non sono riuscite a disciplinarlo. Indagini svolte a livello internazionale dicono che l’80% dei lavoratori è insoddisfatto: chi decide di restare prova a ridurre al minimo l’impegno, chi sta troppo male come ultima ratio sceglie di andarsene».
Grandi Dimissioni: cosa succede dopo
Ma poi queste persone come campano?
«Nella maggior parte dei casi se ne vanno coloro che hanno un “lavoro povero” e fanno questo ragionamento: se mi paghi poco, a lasciare il posto perdo poco. Liberano un tempo che sentono essere svalorizzato per cercare qualcosa di meglio: magari non lo trovano, ma questo è un atto che restituisce loro dignità. La domanda fondamentale però non è: “Perché smettono?”. Ma: “Perché abbiamo lavorato a lungo come se quello fosse per noi un destino naturale che ci avrebbe dato soddisfazione ed emancipazione?”».
Lei quale risposta si dà?
«Nel lavoro per come lo abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo, quello a tempo indeterminato, la dedizione e la lealtà non c’erano solo da parte del lavoratore verso l’azienda, ma anche da parte dell’azienda nei confronti del lavoratore, che riceveva stipendi adeguati, premi alla carriera e vedeva valorizzati l’impegno e le competenze. Tutto questo, però, è stato gradualmente smantellato. Sono cresciute la mole, le ore, l’intensità e la precarietà del lavoro. Di contro, sono state ridotte le pensioni e le tutele. Le Grandi Dimissioni sono nate quando le promesse di un futuro di successo sono state disattese e sono comparse la stanchezza e l’insoddisfazione, fino al burnout. Allora qualcuno ha preso a chiedersi se ne valesse la pena».
Eppure è anche sempre più diffuso il lavoro sottopagato, e persino quello non pagato.
«Un caso emblematico è stato quello dei 18.500 volontari dell’Expo di Milano reclutati perché lavorassero gratis. Era stato suggerito che questo avrebbe dato loro la possibilità di stringere nuove amicizie, ascoltare 50 lingue, essere taggati in centinaia di fotografie e avere tanti “Mi piace”. L’idea di fondo era che il lavoro è sempre una fortuna, anche quando è privo di retribuzione».
Alcuni ritengono il reddito di cittadinanza un disincentivo al lavoro. Cosa ne pensa?
«Non sono d’accordo. Il primo vero disincentivo al lavoro è il lavoro mal pagato. E lo dimostrano le centinaia di interviste che ho fatto in tutta Italia a lavoratori di vari settori: nessuno mi ha citato la possibilità di accedere al reddito di cittadinanza come motivo delle proprie dimissioni. Il lavoro povero, sì. In ogni caso, l’Italia è un caso anomalo nel contesto internazionale».
Perché?
«Nel nostro Paese il fatto che alcuni settori fatichino a reperire personale, penso per esempio nell’IT, l’information technology, coesiste con circa 5 milioni di persone disoccupate e scoraggiate».
Dove ha riscontrato maggiore disaffezione da parte dei lavoratori?
«Le persone si licenziano perché non ce la fanno più soprattutto nella ristorazione, la sanità, la grande distribuzione, la logistica. Ci sono anche esempi positivi, ma in generale la governance in questi settori è fondata su un grande sfruttamento e su vessazioni. Le imprese invece dovrebbero prendere atto dei bisogni espressi dai lavoratori per rinnovarsi profondamente. Dove non si interviene il deterioramento accelera, con danni sia per la produttività aziendale sia nei servizi ai cittadini».
I giovani come reagiscono?
«Sono i più attenti a non dedicare energia e tempo a qualcosa non in sintonia con i loro valori etici. Si parla di “climate quitting” perché lasciano o non accettano posti di lavoro che danneggino l’ambiente e non siano rispettosi delle persone. E lo dicono chiaramente: “Non vogliamo essere inquinanti e vogliamo preservare la nostra salute mentale”».
Intravede possibili soluzioni?
«L’esperimento pilota che ha consentito a 70 aziende inglesi di provare la settimana lavorativa di 4 giorni senza alcuna modifica della retribuzione ha avuto esiti positivi: aumento di produttività, più benessere dei dipendenti, maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata, una riduzione degli spostamenti in auto e, con essi, delle emissioni di CO2. In Spagna, poi, è stata attuata una politica opposta a quella italiana: per ridurre la precarietà sono stati estesi i contratti a tempo indeterminato. Questo tutela il lavoro di oggi e, grazie ai contributi previdenziali, le pensioni di domani. Le controtendenze non sono fantascienza, ci sono e funzionano. Forse è tempo di sperimentarle anche qui».