Tutti i miti sono destinati a morire, ma non succede mai da un giorno all’altro: muoiono prima nel cuore di qualcuno e pian piano perdono fascino per gli altri. Il sogno di un posto fisso e di quel tragitto sicuro casa-ufficio da fare ogni giorno per Marta era parte del lessico familiare in cui l’espressione “contratto a tempo indeterminato” era attributo indispensabile alla felicità. Quel contratto (in un’agenzia di marketing) è arrivato ma la felicità non ne è stata la conseguenza. Lo è stata piuttosto licenziarsi e riscrivere la vita girando il mondo con un computer e un lavoro flessibile da copywriter freelance con affaccio sul mare di Bali. Marta, che vive così dal 2019, è una dei 35 milioni di nomadi digitali nel mondo.
I nomadi digitali sono soprattutto Millennials
Secondo i dati di Nomad List, il sito per chi lavora da remoto, il 48% è americano. Gli italiani sono poco più dell’1%: circa 590.000, di cui il 20% ha cominciato dopo la pandemia. I numeri dicono che la maggior parte è uomo (56%), eterosessuale (86%), bianco (60%), altamente istruito (90%) e dichiaratamente non religioso (55%). L’età di chi sceglie questo stile di vita, dice uno studio condotto dalla società di ricerca americana Mbo Partners, è varia ma le percentuali più alte riguardano i Millenials (47%), con un picco attorno ai 34 anni. Nomad List fa anche l’elenco delle mete cresciute di più negli ultimi anni. Il podio vede Tbilisi in Georgia, Lima in Perù e Belgrado in Serbia, seguiti da Playa del Carmen in Messico e Lisbona in Portogallo. Mentre nel solo 2023 gli hub di lavoro più ricercati sono in Oriente: Osaka, Kyoto e Tokyo in Giappone. E in Italia? La più amata è Palermo (+417% di presenze dal 2018). Un potenziale economico e turistico (si calcola che, globalmente, il mercato dei nomadi digitali valga 787 miliardi di dollari, e che il reddito medio mensile sia di 4.500 dollari) che molti Paesi, tra cui il nostro, hanno scelto di cavalcare introducendo visti specifici che permettono a chi lavora da remoto di risiedere regolarmente per un numero di mesi. Una vita che sembra soddisfare l’88% delle persone che l’hanno scelta. Come testimoniano anche queste storie.
Gianluca Gotto, 33 anni, nomade digitale e scrittore, è in viaggio dal 2016
«Io e la mia compagna Claudia siamo stati i primi a raccontare questo approccio alla vita con il blog Mangia, vivi, ama». Il suo ultimo libro, uscito in primavera per Mondadori si intitola Profondo come il mare e lancia una pietra nello stagno limpido della retorica del viaggio, raccontando come la vita possa scatenare un inferno nei tuoi pensieri, anche se attorno hai il paradiso. «Qualche anno fa ho contratto una febbre tropicale che mi ha fatto cadere in una depressione fortissima. Ne sono uscito quando ho capito che la felicità è un equilibrio tra quello che ti fa star bene nel mondo e quello che ti fa star bene dentro. Io l’avevo sempre cercata fuori. Però, se dentro non c’è armonia, è tutto inutile». La voglia di partire, racconta, a lui è arrivata con una folgorazione. «Quando ho scoperto che c’erano persone che lavorando in remoto potevano svegliarsi un giorno a Bali e il giorno dopo andare a dormire a Singapore, stare 6 mesi in Europa e poi spostarsi in America Latina, ho capito che quella era la vita che volevo» spiega. La prima vera esperienza da nomade la fa a Bangkok nel 2015, scrivendo, articoli per un sito web: «Funzionava sia dal punto di vista economico, perché guadagnavo più di quello che spendevo, sia da quello personale perché era la mia idea di vita felice. E funzionava anche dal punto di vista relazionale perché questo percorso l’ho fatto con la mia compagna, Claudia, e da allora non ci siamo più lasciati».
«Cambio casa ogni 3 mesi e vivo scrivendo libri e podcast»
L’Asia è diventata la loro base. «A parte la pandemia, dal 2015 non passiamo più di 3 mesi nello stesso posto» racconta Gianluca Gotto. «Verso la fine dell’anno, io e Claudia facciamo una pianificazione sui viaggi che vogliamo fare e su dove vogliamo vivere. Di solito scegliamo un posto dove siamo già stati: spesso Bali, dove abbiamo una casa in affitto, e poi due o tre destinazioni nuove da esplorare». Il lavoro, spiega, è cambiato nel tempo. «Da anni vivo scrivendo libri, podcast e il blog. Se sono in Asia, concentro il lavoro nel pomeriggio perché quando mi sveglio in Italia è notte. In America Centrale era l’inverso. Quando ho iniziato questa vita, mi ero dato come obiettivo di non lavorare mai oltre mezzogiorno e negli anni in cui scrivevo articoli ci sono riuscito. Claudia invece è una social media manager: lavora con me e poi ha un panel di clienti che gestisce da qui». Da settembre a far da nomade c’è anche Asia, la loro bambina nata a Bali. «Quando abbiamo comunicato la gravidanza agli amici in Italia, ci hanno mandato messaggi catastrofici. “Con una bambina non potrete più fare nulla” dicevano tutti. Noi invece siamo andati avanti, pensando che sia sempre meglio provare le cose: al limite, se vanno male, torni sui tuoi passi. E invece Asia non ha ancora cambiato il tipo di vita che facciamo. Una cosa sì, però, con lei è diversa: vediamo le cose di prima con occhi nuovi».
Lucia Ricciuti ha 49 anni ed è un’ingegnera programmatrice
Viaggia sola dal 2014 e non ha ancora voglia di fermarsi. «Ho lavorato come sviluppatrice software per nove anni in diverse aziende bancarie, prima in Italia e poi a Buenos Aires, in Argentina. Quando ho iniziato a sentir parlare del lavoro da remoto, qualcosa si è mosso dentro. Negli ultimi tempi avevo crisi di pianto, ma lasciare la sicurezza di un posto fisso non è semplice. Ci sono riuscita quando ho compiuto 40 anni». Anche per Lucia, come per Gianluca, la spinta è arrivata vedendo che qualcuno ce la faceva. «Prima per me c’erano solo due strade: il posto fisso e la vita dei ragazzi che vendevano artigianato per le vie di Buenos Aires. Finché in un corso di economia cosciente, ho realizzato che un sacco di gente lavorava in forme diverse: la flessibilità esisteva, dovevo solo trovare la mia». Per qualche mese viaggia, finché le arriva un’offerta, per un lavoro a termine da remoto: prendere o lasciare. E lei accetta.
«Vivevo negli ostelli e, finito di lavorare, andavo in spiaggia»
«Per i primi mesi sono tornata in Italia dai miei, poi sono partita per Cancun. Finivo di lavorare e andavo in spiaggia. Mi sembrava un sogno. Ho girato tutto il Messico, vivendo negli ostelli: la mattina se ne andavano tutti e restavo io con il mio computer. Lavoravo 5 o 6 ore, poi andavo a fare snorkeling. Doveva durare 6 mesi, è durato 2 anni». Finito quel lavoro, dopo qualche mese un’altra azienda le propone un contratto fisso, sempre da remoto. «Ovviamente la vita da dipendente, con orari fissi tutti i giorni, è diversa, non posso viaggiare come prima. Ora scelgo un posto e faccio base lì tre mesi in un appartamento. Poi mi sposto nei fine settimana o in vacanza». D’inverno vive in Centro e Sud America: Messico, Nicaragua, Guatemala, Colombia. «Medellin è una delle mete preferite dai nomadi digitali e infatti è piena di coworking, wi-fi nelle strutture ricettive, servizi dedicati. Il costo della vita è inferiore rispetto all’Europa e poi è estate tutto l’anno: non devi preoccuparti di comprarti vestiti invernali e viaggi più leggero. In più, entrare nelle comunità locali se parli la lingua è facile. D’estate, invece, vengo spesso in Europa». Le chiedo se soffre mai di solitudine, ma mi risponde di no. «Ho sempre avuto la fortuna di costruire belle relazioni e se non andava bene, mi spostavo prima del previsto. Certo, la garanzia di star bene con gli altri non ce l’hai ma è uno dei rischi se vuoi fare questa vita. La voglia di fermarmi non mi è ancora venuta, ma anche io sto invecchiando: non riesco più ad adattarmi come un tempo. Gli ostelli li lascio ai giovani».
Grazia Zuccarini nel 2019, dopo oltre 20 anni nel marketing, si trasferisce negli Stati Uniti, a Los Angeles
«Un po’ ero stanca di Milano, un po’ volevo inseguire il sogno americano e ricongiungermi con un amore oltreoceano. All’inizio non è stato semplice: cercare casa in una città infinita come Los Angeles è complicato e la scelta sbagliata può essere molto pericolosa» racconta Grazia Zuccarini. Ma lei non molla: chiede a contatti italiani in loco, si informa sui siti locali per affitti brevi e alla fine si ritrova a cercare un piccolo studio su Airbnb. «Nella mia folle ricerca trovo il mio posto, un “coliving space for digital nomads”, ovvero una casa condivisa per lavoratori da remoto». Vive lì per 6 mesi.
«Ho scoperto che esistono community di nomadi digitali»
«La villa è stupenda, luminosissima, pulita e silenziosa. C’è una lavagna dove per ogni stanza, va segnato il nome di chi ci vive e la Nazione di provenienza: io sono l’unica italiana, gli altri sette tutti americani e tutti uomini». Niente è lasciato al caso: gli spazi comuni sono perfettamente organizzati come uffici con wi-fi e sale riunioni. E anche nel gigantesco frigo i ripiani sono divisi tra i coinquilini e ogni cibo o contenitore deve avere l’etichetta con il nome del proprietario. Le regole sono ferree. «Nessun rumore dopo le 10 di sera e nessun ospite esterno, conseguenza della pandemia. Così una volta ho organizzato una cena italiana a base di carbonara per stringere amicizia con i miei coinquilini. In questi coliving, che sembrano ostelli di lusso, ognuno fa la sua vita e il suo lavoro. E le persone cambiano continuamente: lo sai perché leggi la lavagna, altrimenti non te ne accorgeresti. Mi sono resa conto di quanto i nomadi digitali siano una categoria in crescita, quando ho scoperto che online esistono delle community alle quali ti puoi appoggiare quando cerchi casa in un altro Paese: Outsite.co è una delle più note, ha case in tutto il mondo, dal Sud America a Bali. E sempre più Paesi hanno introdotto dei visti ad hoc: Barbados è stato il primo, ma oggi sono 54 gli Stati che concedono le “digital nomads”, visa ai lavoratori itineranti come me».