Lasciare il lavoro dopo appena un giorno. È possibile, anzi sta diventando più frequente ed è già un’opzione valutata da oltre 7 lavoratori italiani su 10. Colpa del mancato “onboarding”, ossia il fatto di non ricevere supporto nella fase di “rodaggio” da neoassunti: l’assenza di indicazioni chiare, ma anche di empatia e accoglienza, infatti, spingono a dare le dimissioni in tempi rapidissimi, facendo fuggire soprattutto i giovani della Gen Z. Ma la mancanza di voglia di lavorare non c’entra.

Cos’è l’onboarding

Solo il 26% dei dipendenti italiani si dice pienamente supportato durante la fase di ingresso in una nuova azienda, contro il 42% della media europea. Secondo i dati di una ricerca appena condotta da Michael Page International, un’azienda di reclutamento internazionale, il fenomeno non è solo italiano, anche se nel nostro Paese è particolarmente marcato: «Il processo di onboarding è fondamentale per l’integrazione di ogni nuovo assunto. Tuttavia, sebbene molte aziende ne riconoscano l’importanza, l’esecuzione spesso non è all’altezza delle aspettative», conferma Francesca Caricchia, Senior Executive Director di PageGroup, di cui Micheal Page è parte.

Onboarding: perché si lascia subito il lavoro

Secondo il sondaggio, per il 43% degli intervistati il problema è stato non aver ricevuto alcuna comunicazione su come si sarebbe svolto il primo giorno di lavoro, mentre il 79% non ha partecipato a nessun evento di benvenuto. Anche tra chi ha provato a “resistere” più a lungo, il 22% ha raccontato di non aver ricevuto supporto adeguato durante il periodo iniziale. Tutto questo genera un senso di sfiducia nei confronti del datore di lavoro e può compromettere il successo di un inserimento lavorativo.

Cosa si aspettano i neoassunti dall’azienda

La ricerca mostra come per quasi 8 lavoratori su 10 sia essenziale ricevere informazioni pratiche, mentre il 43% chiede un programma di onboarding chiaro e strutturato. Poco meno della metà dei neoassunti (46%) vorrebbe avere un incontro con il proprio futuro manager prima di iniziare, mentre il 32% apprezzerebbe una visita esplorativa in azienda prima dell’inizio della collaborazione. Tutte cose che, invece, nella maggior parte dei casi mancano. Tra le conseguenze, oltre all’insoddisfazione del lavoratore, c’è il rischio di un danno di immagine (e produttività): 1 nuovo assunto su 3 non consiglierebbe la propria azienda ad altri.

Onboarding, un danno per lavoratori e aziende

Se il mancato onboarding porta a dimissioni anticipate, infatti, l’effetto negativo per l’azienda è anche di tipo economico: «Un turnover elevato è un costo, sia in termini economici che di reputazione. L’onboarding non può essere ridotto a qualche giorno di formazione e a un manuale di benvenuto. È il primo vero contatto con la cultura aziendale, il momento in cui si gettano le basi per una collaborazione duratura. Investire in un onboarding chiaro, strutturato e supportato da mentorship e momenti di confronto può fare la differenza tra una partenza incerta e un percorso solido. E questo vale per tutti, ma soprattutto per chi è all’inizio e ha bisogno di sentirsi coinvolto e valorizzato», spiega Laura Fornaroli, Marketing Manager di MobieTrain.

Dimissioni rapide dovute a onboarding insufficiente: fenomeno in crescita

«Le dimissioni rapide dovute a un onboarding insufficiente non sono una novità, ma oggi sono più frequenti, soprattutto tra i giovani – chiarisce ancora Fornaroli – Non è solo questione di impazienza o poca resilienza, ma di aspettative diverse: chi entra oggi nel mondo del lavoro cerca non solo uno stipendio, ma un ambiente che dia spazio alla crescita, al confronto e a un senso di appartenenza. Quando questo manca fin dall’inizio, la tentazione di andare altrove è forte».

La Gen Z ha meno voglia di lavorare?

La domanda circola soprattutto tra chi appartiene alle generazioni precedenti, come Millennials e soprattutto Gen X: è forse diminuita la voglia di lavorare o lo “spirito di sacrificio”? «Ogni generazione è il prodotto del contesto in cui cresce e oggi il mondo del lavoro sta cambiando rapidamente. Le giovani e i giovani professionisti non sono meno propensi alla fatica, ma hanno un diverso approccio: non vedono il lavoro solo come un dovere, ma come un’esperienza che deve offrire valore, crescita e un equilibrio con la vita personale», risponde l’esperta della piattaforma di microlearning, dedicata alla formazione del personale.

Cosa è giusto aspettarsi dal datore di lavoro

È anche nell’interesse delle aziende, quindi, sforzarsi di cambiare: «Nella misura in cui anche le aziende si aspettano impegno e contributo dai propri collaboratori, è giusto che loro stesse cambino. Un ambiente che investe in onboarding, mentorship e percorsi di sviluppo non solo è più attrattivo, ma crea le condizioni per trattenere i talenti. Tuttavia, il coinvolgimento è un processo a due vie: chi entra nel mondo del lavoro deve essere disposto a mettersi in gioco, coltivare la curiosità e darsi il tempo necessario per comprendere le dinamiche aziendali», dice Fornaroli.

I consigli dell’esperta

Come comportarsi, quindi, quando si entra nel mondo del lavoro o in una nuova realtà professionale? «Direi di non fermarsi al primo impatto: ogni azienda ha la sua cultura, le sue dinamiche e i suoi tempi di adattamento. Creare relazioni, essere proattivi e capire come puoi contribuire fa davvero la differenza. Fai domande, cerca feedback regolarmente e osserva come lavorano le persone più esperte. Se possibile, trova un mentore interno o qualcuno con cui confrontarti nei primi mesi», suggerisce l’esperta.

Essere pronti al piano B: cambiare, se necessario

Se però tutto questo non è sufficiente, non è neppure giusto ostinarsi a rimanere in un ambiente che non si sente adatto: «È importante riconoscere quando un ambiente non è adatto alle tue aspirazioni, ma senza sottovalutare il valore dell’esperienza. Anche un percorso breve può insegnarti qualcosa di utile per il futuro, che si tratti di competenze tecniche o semplicemente di capire meglio cosa cerchi davvero in un lavoro. Datti il tempo di imparare e crescere, senza la paura di cambiare strada se necessario», conclude l’esperta.