«Tutto è iniziato come un gioco, poi ho capito che poteva essere qualcosa in più. Mia nonna era emigrata a Milano dalla Puglia e ha gestito due bar in città. Evidentemente ce l’ho nel Dna…». Miriam Guida, 28 anni, è una delle circa 700 barladies italiane.

Barlady: il successo delle scuole di formazione

Giovani e veterane, in patria e all’estero, si fanno valere sempre di più. Lo dimostra il successo della Mixology Academy, scuola di bartender con sedi a Milano e Roma: i corsi attraggono ogni anno più di 1.000 studenti, ragazzi che ragazze, e oltre la metà di loro trova lavoro entro 3 mesi dalla conclusione della formazione professionale.

Miriam si è formata qui e, dopo un open day “galeotto” a Parigi, è stata arruolata dalla catena di ristoranti francese Big Mamma e poi dallo stellato Adrià a Barcellona. Oggi vive e lavora a Dubai e giura che per lei è come essere «a Londra, anche se con qualche grado in più. In estate fuori ce ne sono 50, ma dentro, a causa dell’aria condizionata, -16!» ride. «Io per sopravvivere entro ed esco dal locale». Nel bicchiere, però, i gradi non dovrebbero essere così tanti, trattandosi di un Paese islamico… «In realtà la cultura della miscelazione sta crescendo moltissimo qui, perché l’ambiente è super internazionale e, girando molti soldi, c’è voglia di investire su nuove idee. Consumare alcolici nei locali non è un problema, all’aperto non è permesso».

Obiettivo: parità nella drink industry

Spontaneo chiederle se, in quanto giovane e donna, abbia avuto problemi. «Assolutamente no, anzi: posso girare tranquilla alle 3 di notte». E dietro al bancone invece? «Generalmente gli uomini hanno due approcci: quelli per cui devi essere sempre carina e gentile e quelli che ti trattano come una scema, ti ripetono le cose tre volte oppure dicono “Fammi parlare con lui”. Ma questo capita in qualsiasi settore lavorativo». Nonostante il comportamento dei clienti non sia sempre il massimo, le barladies con cui abbiamo parlato assicurano che l’ambiente è oggi più paritario. «È piuttosto l’età a rivelarsi ancora discriminante: le donne sono allontanate dal bancone appena le tette cominciano a calare, mentre gli uomini a 60 anni possono ancora fare i fighi in giro» osserva Valeria Bassetti, che si definisce una “matusalemme”, nonostante abbia appena 49 anni. Lavora da oltre 20 e si batte per costruire una bar industry più inclusiva e libera da pregiudizi. «Nel mio piccolo, anni fa, ho compiuto una rivoluzione» racconta. «Mi sono detta che non avrei più fatto questo lavoro solo per pagarmi l’università, ma perché mi piaceva». Molto del suo tempo oggi Valeria lo impiega per formare i nuovi talenti dei cocktail, «anche se, più che a preparare gin tonic, insegno l’etica e filosofia del bartending, che ha molto più a che vedere con l’ospitalità e il far sentire benvenute le persone. I clienti non vengono da noi perché hanno sete, ma perché cercano una relazione umana».

La bufala dei ragazzi che non vogliono lavorare

Riguardo alle polemiche che ritornano ciclicamente, specie in estate, sui giovani che non hanno più voglia di lavorare nella ristorazione a causa degli orari massacranti o del (fu) reddito di cittadinanza, Valeria Bassetti ha una teoria precisa: «Sono bufale che si sono inventati quelli della mia generazione. Ciò che non convince più i giovani di oggi ad abbracciare questo lavoro è l’individualismo eccessivo verso cui lo abbiamo spinto, con i bartender e gli chef superstar, mentre noi ci dobbiamo nutrire di collettività. Io, quando faccio i colloqui, ho anche smesso di dire ai ragazzi “contratto a tempo indeterminato” perché a loro non interessa. Preferiscono sentire parlare di formazione continua, possibilità di crescere, viaggiare. Vogliono sapere: “Oggi che cosa posso imparare?”».

La dura vita di una barlady

Di questo è convinta anche Desirè Verdecchia, 39 anni, capo barman del Bulgari Hotel Roma. «Sono approdata all’hôtellerie per trovare una stabilità nel post-pandemia: è stato un bisogno di sicurezza mio, anche perché ho un figlio di 9 anni. Però vedo che i ragazzi che si candidano da noi non lo fanno per il posto fisso ma per una questione di opportunità: in un grande gruppo come il nostro, con strutture in tutto il mondo, la crescita è reale». L’esperienza di Desirè dimostra che conciliare famiglia e vita al bancone è possibile, anche se difficile. «Per noi non ci sono orari né feste comandate, quindi è necessario avere attorno una buona rete di supporto. Io sono una mamma separata e vado molto d’accordo con il mio ex, e questo mi permette di andare avanti con il lavoro».

Nei bar ci vuole fairplay

Rispetto a bar e locali, l’hotel ha un’operatività diversa. «Devi garantire uno standard molto alto». Tradotto: se il bar chiude all’1 di notte e un cliente si trattiene a fumare un sigaro fino alle 2, «noi dobbiamo rimanere, non possiamo mandarlo via». Molta pazienza, un’abbondante dose di cortesia e una shakerata di sorrisi sono gli ingredienti necessari per fare bene questo lavoro. E una guarnizione di buona memoria non guasta. «Tutti i nostri clienti li dobbiamo chiamare per nome» spiega Desirè. Riguardo al cocktail menu pare non ci siano particolari miscele in voga, al momento, «ma tutto dipende dai gusti e dalla provenienza dei clienti».

A questo proposito, quali sono le mete più interessanti da suggerire agli e alle aspiranti mixologist? «Per la mia generazione il must era Londra, ma a causa della Brexit oggi non la consiglierei» dice Valeria Bassetti. «Invece trovo molto interessante l’Australia e tutto il Grande Est: Macao, Hong Kong, Shanghai permettono di costruirsi un bagaglio di esperienze davvero immenso, di confrontarsi con profumi e sapori diversi dai nostri “mediterranei”. Oppure, restando in Italia, perché non prediligere la Puglia, un’avanguardia del nostro Sud a livello di ospitalità? In pochi anni hanno reso figo ciò che era semplicemente bello: non è un caso che il G7 sia stato fatto lì».

Quanto si guadagna

Dipende dall’inquadramento e dalla “specialità”: si va da 1.500 euro al mese per un barista professionale “classico” a 2.000 per un mixologist che crea cocktail originali, fino a 4.000 per un capo barman. Mance escluse!

Dove si studia per diventare (anche) barlady

La Federazione Italiana Barman organizza corsi professionali in tutte le regioni, in collaborazione con gli istituti alberghieri delle varie città (federazioneitalianabarman.it/academy.html).

Mixology Academy ha sedi a Milano e Roma. Il corso di Barman Certificato, della durata di 12 mesi, è riconosciuto in tutto il mondo (corsiperbarman.it).

Accademia Barman a Roma ha oltre 50 corsi l’anno e punta su una formazione “sul campo” (accademiabarman.it).