Lavorare meno, lavorare diversamente o non lavorare affatto. Si intitola così un libro a firma di Serge Latouche, professore emerito di Scienze economiche all’Università di Paris Sud (uscito in italiano per Bollati Boringhieri). Escludendo l’approccio – utopistico per quasi tutti noi – del non lavorare affatto, le altre due opzioni prese in considerazione albergano da tempo nelle aspirazioni di molti e cominciano a concretizzarsi in nuove forme di organizzazione del lavoro. Tra queste, la settimana corta che – a date condizioni – può soddisfare più bisogni.
Molti dipendenti vogliono più tempo per sé e la famiglia
Come racconta Alessandra, operaia 57enne: «Ho un figlio di 30 anni, e noto che i giovani hanno una visione diversa rispetto a noi sul rapporto tra lavoro e vita privata. Anche io, però, ora sento una certa stanchezza e il desiderio di dedicarmi ai miei hobby. Inoltre, ho genitori anziani e voglio poterli aiutare nelle piccole necessità, come fare la spesa, ma anche trascorrere del tempo con loro, ascoltarli e godermi questi anni insieme. Guardare alla settimana lavorativa come 4 giorni di lavoro e 3 di riposo, anziché 5-2, ti consente di avere un altro approccio. Speravo che la mia azienda offrisse questa opportunità, ed è successo».
Settimana corta, molto richiesta dalle donne
L’azienda, dove Alessandra lavora da 30 anni, è EssilorLuxottica che ha avviato il progetto in via sperimentale in alcuni reparti di vari stabilimenti italiani, coinvolgendo nel primo anno circa un migliaio di dipendenti che hanno aderito su base volontaria. Il 64% di loro è donna, e la proposta ha ricevuto un consenso trasversale tra le generazioni, con picchi tra i 50-59enni (37, 8%) e i 40-49enni (28%). Dunque, questi dipendenti, a parità di stipendio, possono beneficiare di 20 venerdì liberi all’anno: 5 (o 7, a seconda del tipo di modello) di queste giornate sono coperte dai loro permessi retribuiti, mentre le restanti 15 (o 13) sono coperte dall’azienda.
Alcune aziende propongono il venerdì breve
Anche altre realtà stanno implementando approcci diversi ai tempi di lavoro. Come Intesa Sanpaolo, la prima grande azienda che a inizio 2023 ha introdotto nel nuovo modello organizzativo del lavoro la settimana corta (4 giorni da 9 ore lavorative a parità di retribuzione), che si aggiunge a misure già ricomprese nella contrattazione di Gruppo tra le quali il lavoro agile. L’anno scorso hanno utilizzato questa possibilità circa 10.000 dipendenti (personale full time sia delle strutture centrali sia di alcune filiali). Il Gruppo Lavazza, invece, nel contratto integrativo per il triennio 2023-2025 per i dipendenti dell’headquarter Nuvola Lavazza di Torino e del Centro Direzionale di Settimo Torinese punta sul venerdì breve (orario ridotto a parità di stipendio, fruibile da maggio a settembre). Contratti simili con strumenti di flessibilità oraria e di bilanciamento vita-lavoro sono stati siglati dall’azienda anche per i propri stabilimenti produttivi italiani.
Settimana corta: i due modelli
Mentre la politica approccia il tema (il Comitato ristretto della Commissione lavoro della Camera ha stabilito che questo mese venga adottato un testo base sulla cosiddetta “settimana corta”), ci fa un quadro della situazione Mariano Corso, professore di Leadership and Innovation alla School of Management del Politecnico di Milano e cofondatore degli Osservatori Digital Innovation dello stesso ateneo: «Mentre all’estero esistono già numerosi esempi, la settimana corta è un fenomeno agli inizi in Italia, coinvolge il 9% delle grandi imprese e il 6% delle PMI. Due le tipologie: la settimana compressa e il modello 100-80-100. La maggior parte delle sperimentazioni sono del primo tipo: a parità di stipendio, si concentra l’orario in un numero ridotto di giorni. Il secondo modello, si propone di ridurre il numero di ore lavorative, cercando di mantenere invariati livello e qualità della produzione: l’azienda offre il 100% della retribuzione, il dipendente lavora l’80% del tempo, ma deve raggiungere il 100% degli obiettivi prefissati».
U nuovo rapporto tra tempo e lavoro
La settimana corta va comunque inquadrata in un movimento più ampio di rimodulazione dell’organizzazione del lavoro per rispondere a nuove esigenze. «Stiamo assistendo a una lunga fase di trasformazione, iniziata soprattutto con la diffusione del digitale che ha gradualmente cambiato il modo in cui percepiamo lo spazio e il tempo nelle nostre attività» continua il professor Corso. «Il tema dell’orario di lavoro è rimasto a lungo rigido poiché nelle relazioni industriali e nella cultura del lavoro del secolo scorso il tempo era il parametro chiave: offrivi tempo in cambio di retribuzione e il tuo valore era proporzionale al tempo che trascorrevi nel luogo di lavoro». La validità di questo assunto si è via via erosa e la pandemia le ha inferto il colpo ferale.
Oggi, benessere e flessibilità sono i principali fattori che guidano la scelta del lavoro, e sempre più persone chiedono di poter bilanciare professione e vita privata
La settimana corta è una delle risposte che le aziende esplorano per attrarre e trattenere talenti.
Con la settimana corta può migliorare il benessere dei dipendenti?
Resta ineludibile la domanda: è una soluzione praticabile da tutti o è una possibilità confinata a poche realtà? Secondo un sondaggio dell’AIDP, Associazione italiana per la direzione del personale, il 53% dei direttori del personale è d’accordo sull’introduzione della settimana corta, da 5 a 4 giorni lavorativi, mentre il restante 40% lo è solo parzialmente e il 6% non è favorevole. Tra le ragioni per il sì la possibilità di migliorare la conciliazione vita-lavoro, l’aumento del benessere psico-fisico e della motivazione dei dipendenti.
Come sottolinea il professor Corso, citando una ricerca condotta in Gran Bretagna su aziende che hanno già implementato la settimana corta su larga scala, i risultati sono promettenti: «Lo stress dei dipendenti si riduce, facilitando una maggiore conciliazione tra lavoro e vita privata, aumentano l’attrattività e la capacità di mantenere il personale in azienda. E diminuisce l’assenteismo. Crescono la produttività, l’efficienza e l’innovazione, con una conseguente riduzione dei costi e una maggiore sostenibilità ambientale ed economica». Tuttavia, non mancano i rischi: «Comprimere troppo le ore lavorative può aumentare la pressione sui dipendenti, compromettendone la salute» precisa Corso. «C’è il rischio di dare troppa importanza alla presenza fisica e agli orari, a scapito di una cultura del lavoro per obiettivi e può risultare difficile garantire coordinamento, collaborazione e socializzazione nei team».
Non tutte le aziende possono ricorrere alla settimana corta
Per queste ragioni la posizione dell’AIDP resta di cauta apertura. «Con la settimana corta se da un lato possono esserci ricadute positive sulla produttività e sui lavoratori in termini di migliore equilibrio e qualità del rapporto vita-lavoro, dall’altro gli aspetti di natura retributiva e organizzativa che tale soluzione comporterebbe sono ancora da valutare» commenta Matilde Marandola, presidente nazionale dell’associazione. «È sempre importante comprendere e ascoltare le situazioni delle singole aziende e delle singole persone». In attesa di capire dove la settimana corta possa essere applicata in modo più esteso, emerge un ulteriore vantaggio, soprattutto per le donne spesso alle prese con la gestione dei carichi familiari. Annalisa, 49 anni, anche lei operaia in EssilorLuxottica, non ha dubbi: «Con la settimana corta sai che avrai più tempo per te stessa e le persone care. C’è anche la possibilità del part-time ma il bilancio familiare ne risente. Invece, investendo i miei giorni di permesso, l’azienda me ne regala altri e per me è un bel vantaggio. Spero proprio che continui così».