Il 60% dei lavoratori è emotivamente distaccato dal proprio lavoro e quasi 1 su 5 soffre quotidianamente. Significa che poco meno di 8 persone su 10 vivono il lavoro con frustrazione e senso di malessere. Colpa – troppo spesso – dei ritmi ai quali si è costretti, che non lasciano spazio (o troppo poco) alle relazioni extra lavorative e alla vita “vera”. Insomma, ci si sente costantemente compressi. Da qui l’esigenza sempre più crescente di rallentare, come dimostra la Gen Z, alla ricerca della cosiddetta work-life balance, l’equilibrio tra vita lavorativa e privata. In una parola, di uno sloworking.
Il lavoro non lascia spazio alla vita privata
A cavallo della Giornata mondiale della Felicità (20 marzo), arriva dati che confermano come “lavoro” faccia sempre meno rima con “felicità”, anzi che sia proprio fonte di malessere. Solo 4 persone su 100, infatti, dichiarano di sentirsi felici sul posto di lavoro. La situazione riguarda tutto il mondo occidentale, ma in Italia il fenomeno è particolarmente marcato: un terzo dei lavoratori italiani si definisce triste e considera il mondo del lavoro frustrante. L’Italia si piazza persino al secondo posto al mondo nella classifica dei Paesi dei lavoratori “più tristi” (27% del totale).
Il lavoro è necessario, ma non dovrebbe essere fonte di tristezza
Poter svolgere il lavoro dei sogni non è da tutti, ma riuscire almeno a coniugare dignità professionale e tempo di vita è un obiettivo raggiungibile. Almeno secondo i promotori del primo Sloworking Day 2025, ossia il festival del lavoro a ritmo di vita. Promosso dall’Associazione Sloworking che da 10 anni si impegna su questo fronte, parte dal presupposto che occorre restituire valore al tempo, alle relazioni e alla vita.
Cos’è lo sloworking
L’obiettivo è quello di poter conciliare i modelli produttivi attuali con il diritto a un lavoro dignitoso e quanto più armonioso possibile con la vita vissuta «senza accontentarsi di una faticosa, seppur necessaria, conciliazione. Il lavoro “slow” è un approccio che pone al centro il benessere della persona». Occorre, quindi, un cambiamento all’interno delle aziende, ma anche una trasformazione più ampia, che riguarda i valori del lavoro e le aspettative, ma soprattutto interessa anche i lavoratori indipendenti (o forse soprattutto loro).
Come cambiare l’approccio al lavoro
Tradurre in pratica questo traguardo non è semplice: «Quando Sloworking è nata l’idea di portare il concetto di lentezza all’interno del discorso sul lavoro pareva folle: soprattutto in un contesto, come quello lombardo, votato alla produttività (o presunta tale) come valore supremo», spiega Vanessa Trapani, Presidentessa Associazione Sloworking. All’epoca si trattava di un messaggio quasi visionario, che invece oggi dimostra la sua fondatezza, specie per le donne, schiacciate tra obblighi lavorativi e impegni familiari crescenti, che riguardano sia la cura dei figli che dei genitori, una volta diventati meno autonomi.
Perché il lavoro deve rallentare, specie per le donne
«Quando abbiamo fondato Sloworking eravamo un piccolo gruppo di donne. Avevamo subito, in modi diversi e spesso a ridosso di una maternità, un sistema organizzativo rigido, presenzialista e iper-produttivista, spesso di stampo maschile, che misura il valore del lavoro in ore passate in ufficio, in quantità di output prodotti o nella reattività continua, piuttosto che nella qualità dell’apporto, nella ricerca di senso, nella cura delle relazioni, nella costruzione di valore condiviso. Noi non volevamo rinunciare al lavoro e all’indipendenza economica, ma volevamo cambiare ritmo, trovando una dimensione di equità, riconoscimento del valore e sostenibilità che tenesse conto della vita reale», dice Trapani.
Lo sloworking fa bene a donne e uomini
«Attenzione però, rallentare non è un bisogno solo delle donne che comunque, proprio per le loro esperienze di conciliazione e gestione complessa del tempo, sono spesso apripista di nuove riflessioni sui modelli organizzativi. Il punto – sottolinea Trapani – non è adattare il sistema alle loro esigenze, bensì ripensare il senso del lavoro per tutti, uomini compresi. Non a caso, sono proprio i lavoratori più giovani – donne e uomini – a dimostrare che per loro il paradigma è già cambiato: rifiutano carriere logoranti, vogliono un rapporto più sano con il tempo e cercano aziende che valorizzino il loro contributo senza costringerli a una dedizione completa».
Oltre gli slogan: cos’è, davvero, il benessere lavorativo
«In questi anni questa riflessione si è fatta strada prendendo però forme annacquate, più spesso iniziative da slogan: si parla di benessere organizzativo, si inventano programmi di welfare à la carte, ma ci pare manchi ancora un dibattito pubblico serio e convinto che metta a confronto imprese, donne e uomini, giovani e meno giovani e si interroghi seriamente sulla sostenibilità del lavoro come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni», sottolinea Trapani. Qualche passo avanti si registra negli Stati Uniti.
Serve una trasformazione vera: cos’è la Slow Productivity
È dagli Usa, infatti, che deriva il termine di Slow Productivity: è l’idea di rimettere al centro la qualità, più che il tempo in sé dedicato al lavoro in ufficio. Ad essere messa in discussione è la «pseudo-produttività e la cultura logorante dell’always on», spiegano i promotori del concetto di sloworking, su cui si sono confrontati anche Banca Etica, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Università degli Studi di Milano-Bicocca, CONFIMI Industria Monza e Brianza, Danone Italia, ACTA (l’Associazione dei Freelance), Job4good, studenti e dottorandi.
Sloworking: più tempo lento, più produttività
Rallentare i ritmi quotidiani, concentrarsi sulla qualità invece che sulla quantità, porta anche a maggior creatività e l’innovazione. In Italia l’Associazione Sloworking è stata pioniera del movimento slow, anche se in Italia, diversamente da altre parti del mondo, non si è riusciti ad andare oltre il tema del “food”. «Il concetto di Slow Productivity è stato descritto da Cal Newport, docente della Georgetown University, autore e divulgatore noto per i suoi studi su produttività, lavoro e tecnologia. Nasce come alternativa alla cultura del “sempre connessi”, dell’iper-efficienza e della pseudo-produttività, che spesso portano all’overworking senza reali benefici in termini di qualità del lavoro», spiega Trapani. La qualità, quindi, conta più della quantità e mira a evitare il logoramento mentale e fisico.
La lentezza lavorativa non significa scarsa produttività
L’idea di una lentezza lavorativa, però, è spesso associata a quella di «scarsa efficienza, resistenza al cambiamento e performance mediocri. “Investire” nella lentezza può riportare al centro del lavoro l’importanza della cura delle relazioni, della partecipazione alle decisioni, della riflessività…alternative che richiedono tempo, ma che sono strategiche per contrastare il disinvestimento, l’isolamento e la banalizzazione del pensiero», spiega Laura Galuppo, Professoressa associata in Psicologia del Lavoro dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Ridurre l’isolamento e aumentare le relazioni
In linea generale, però i rischi emotivi del lavoro “fast” sono stress, frustrazione e generale malessere o disimpegno, mentre i benefici sono evidenti: «Investire nella lentezza può riportare al centro del lavoro l’importanza della cura della qualità di quello che facciamo e delle persone con cui lavoriamo, oltre che delle nostre esigenze di conciliazione del lavoro con la vita». Per Galuppo, mettersi intorno ad un tavolo per discutere dei problemi, ascoltare più punti di vista, gestire i conflitti, resistere alle mode per trovare soluzioni innovative ma adatte ai contesti specifici, riflettere criticamente o tornare sulle decisioni prese sono opzioni che permettono anche una buona manutenzione delle nostre relazioni».
La felicità lavorativa è una chimera o si può raggiungere?
Il dubbio resta: si può raggiungere la “felicità lavorativa”? «Dovremmo definire di cosa si tratta: per molte persone e organizzazioni è legata alla possibilità di sentirsi capaci, riconosciuti, connessi con gli altri mentre lavoriamo. Per altre è la possibilità di fare un lavoro utile agli altri o di avere tempo e risorse per dedicarsi al lavoro pagato, ma anche alla cura familiare, di sé e ad attività che danno senso alla vita. Provocatoriamente, mi verrebbe da dire che sono desideri che spesso nel modo attuale in cui lavoriamo, accelerato, iper-competitivo, per molte persone precario, con relazioni a volte strumentali e a volte molto conflittuali, a volte rarefatte sono difficili da realizzare».
Sloworking: più ascolto ai propri desideri
In un’epoca di grandi ripensamenti sugli stili di vita – come testimoniano le tendenze della Gen in tema di lavoro – «L’aspetto su cui porrei l’accento è che sono tutti desideri a cui oggi prestare ascolto; sono desideri che non possiamo realizzare da soli/e, ma con l’aiuto delle altre persone, di chi è in ruoli gestionali, delle nostre famiglie, delle colleghe/i. La strada per realizzarli è possibile, se entriamo in percorsi di comprensione reciproca e di riprogettazione del nostro modo di lavorare e di organizzare il lavoro», conclude la psicologa.