La solitudine lavorativa sta aumentando e con essa cresce la preoccupazione per le conseguenze di chi ne soffre. Si tratta di lavoratori e lavoratrici, giovani della Gen Z e meno giovani della Gen X, Millenials, ma anche Boomers, che hanno dovuto cambiare le modalità professionali. La tecnologia ha giocato un ruolo decisivo, ma le conseguenze in termini di benessere e peggioramento della qualità di vita quotidiana possono essere importanti.
La solitudine lavorativa
Sempre meno interazione fisica e sempre più isolamento; cresce il lavoro svolto davanti a un computer, in solitudine, mentre diminuisce quello a stretto contatto con colleghi e collaboratori. In una parola: aumenta la solitudine professionale o lavorativa. Si tratta di una condizione che può portare a conseguenze che vanno anche oltre il lavoro: ansia, depressione, burnout o perdita di motivazione sono tra gli effetti più diffusi e possono impattare sulla vita di chi si trova a lavorare in solitudine.
I campanelli d’allarme della solitudine lavorativa
«Lavorare da soli, davanti a un computer, porta a focalizzarsi su un monitor, senza stimoli esterni e senza empatia con i colleghi. Viene meno il senso di appartenenza, non ci sono scambi con gli altri come in un ufficio o in un altro luogo di lavoro, non c’è neppure la possibilità di confrontarsi in caso di difficoltà. Tutto ciò porta a un senso di solitudine che si accompagna a “sintomi” precisi come l’intorpidimento mentale e fisico, che porta a indolenza e una maggiore irritabilità», spiega Alessandra Iamundo De Cumis, psicanalista già consulente psicosomatica per Humanitas Medical Care e Humanitas Gavazzeni di Bergamo, esperta in tematiche del lavoro.
Gli effetti dell’isolamento professionale
Secondo il rapporto Gallup, State of the Global Workplace, nel 2024 ben 1 dipendente su 5 a livello mondiale si sente solo sul lavoro. Secondo U.S. Surgeon General’s Office, responsabile della salute pubblica degli Stati Uniti, il problema sta assumendo dimensioni per cui occorre correre ai riparti, soprattutto sugli effetti: non solo peggiora il benessere dei lavoratori, ma aumentano anche assenteismo e ricorso a cure mediche (e psicologiche). Anche l’Organizzazione mondiale della sanità ha esortato i datori di lavoro a impegnarsi per migliorare il welfare, favorendo i rapporti umani in ambito lavorativo.
Colpa (anche) della tecnologia
Molti sono i fattori che concorrono al senso di solitudine: certamente quello demografico e culturale, con un aumento dell’isolamento generale, ma è soprattutto la tecnologia ad aver giocato un ruolo determinante, permettendo di trasferire nella dimensione digitale molte delle attività che in passato erano svolte in presenza: basti pensare alle riunioni, oggi in larga parte diventate videocall. La pandemia Covid, poi, ha rappresentato una svolta, con il boom dello smartworking.
Le conseguenze dello smartworking
«Questo fenomeno è emerso in modo esponenziale durante la pandemia Covid, in cui in molti si sono messi alla prova con lo smartworking. Ma mentre all’inizio c’era entusiasmo, perché si era creata una nuova routine, già dopo 3 o 4 mesi si è iniziato a soffrire di questa condizione. Alcune ricerche hanno anche dimostrato che lavorare online richiede più energia mentale. Trascorrere tante ore al pc in isolamento – spiega l’esperta – porta a un senso di straniamento, una sorta di oblio. Per superarlo occorre una organizzazione rigida e forte, che a sua volta richiede grande impegno».
Le altre cause
Come conferma una survey dell’Osservatorio BIP Factory, oltre alla maggior diffusione e ricorso ai device, possono portare a solitudine lavorativa anche la cultura aziendale (25%) e i rapporti sia con il proprio team (30%) che con il proprio superiore (22%). È, però, il lavoro da casa a essere indicato come il motivo principale del senso di isolamento (40%), mentre il lavoro ibrido (5%) sembra essere meno responsabile di questa sensazione. In generale a trovare aspetti positivi sono in pochi: per il 37% lavorare da soli può essere un’opportunità per riflettere sull’ambiente circostante e l’introspezione (33%), mentre per il 22% del campione che trova anche benefici, la maggior solitudine può essere rigenerativa.
La solitudine lavorativa colpisce donne e uomini
È sempre l’indagine condotta dall’Osservatorio BIP Content Factory a indicare un altro dato importante: il 90% degli intervistati afferma di aver provato una sensazione di solitudine almeno una volta nella propria vita e, una volta tanto, la solitudine lavorativa è un fenomeno che, almeno in teoria, non fa distinzioni di genere, così come di generazione e posizione lavorativa (nel 77%) dei casi). «Le donne riescono ad adattarsi meglio, possono averne anche alcuni benefici perché lavorando da casa possono occuparsi anche di quest’ultima e della famiglia, ma a fronte di un carico di lavoro anche maggiore», conferma l’esperta.
Gen Z e Gen X a confronto
A livello generazionale sembrerebbe che, se a soffrirne sono tutti, i più giovani forse ne hanno una minor percezione, perché nati in una società dove questo fenomeno è già affermato. I senior, invece, possono notare maggiormente i cambiamenti rispetto al passato e dunque provare disagio o frustrazione. «I senior sicuramente soffrono della solitudine lavorativa, ma notiamo – e le ricerche lo confermano – che c’è anche una certa quota di giovani che sta chiedendo sempre di più il lavoro in presenza, indice del fatto che, come esseri umani, abbiamo bisogno di interazioni: siamo esseri sociali e infatti anche chi potrebbe scegliere di lavorare da casa oggi generalmente non lo fa», osserva la psicanalista.
Perché andare in ufficio “fa bene”
«Gli spostamenti per raggiungere il luogo di lavoro e poi tornare a casa, in effetti, sono un momento positivo perché permettono di uscire da quella dimensione senza spazio e senza tempo dello smartworking. Ad esempio, si pensa, si struttura la giornata o semplicemente ci si distrae – spiega Iamundo De Cumis – Di fatto il viaggio è un momento che ci nutre. Lavorare da casa può essere positivo solo per quella nicchia che può permettersi di farlo da località di mare o vacanza in genere. Per gli altri c’è anche il rischio di trascurarsi, come dimostrato durante il Covid».
Come ridurre l’impatto della solitudine
Nel caso in cui non si abbia scelta, però, si può pensare a piccoli escamotage per ridurre l’impatto dell’isolamento sociale. «Il primo è di utilizzare una stanza apposita (potendo) per lavorare, che non siano la cucina o la camera da letto, per evitare quella invasione tra spazi privati e professionali che non va bene – suggerisce l’esperta – Poi è consigliabile imporsi e organizzare attività sociali esterne, che portino a mantenere relazioni e creino momenti dedicati solo a noi stesse e non sempre legate alla dimensione lavorativa. Infine, rispettare anche degli orari, come nel caso dei pasti, altrimenti si finisce con lo spiluccare di continuo o mangiare davanti al pc, che non è molto controproducente, sia per il benessere fisico che mentale».