La professione che una persona svolge nel corso della sua carriera lavorativa – e lo stile di vita che ne deriva – influisce sulla durata della vita stessa. È quanto emerge dal rapporto annuale dell’Inps presentato alla Camera mercoledì 13 settembre, secondo cui in media un operaio ha un’aspettativa di vita che è di ben 5 anni inferiore rispetto a quella di un dirigente.
L’aspettativa di vita di un operaio è più bassa: cosa dicono i dati
«Un ex-lavoratore dipendente, con un reddito coniugale nella fascia più bassa della distribuzione, ha un’aspettativa di vita a 67 anni, quasi 5 anni inferiore rispetto a quella di un ex-contribuente al Fondo Inpdai», il Fondo previdenziale dei lavoratori dirigenti, o un ex contribuente volo o telefonici, «con reddito nella fascia più alta della distribuzione», spiega l’Inps nel suo rapporto annuale. Poi precisa: «Tali differenze tra le donne sono meno pronunciate, ma comunque rilevanti». Emergono quindi seri problemi «dal punto di vista dell’equità e anche della solidarietà». Questo perché «l’attuale sistema previdenziale applica al montante contributivo un tasso di trasformazione indifferenziato, che presuppone speranza di vita indifferenziata».
Il rapporto Inps evidenzia un ulteriore divario su base geografica. L’aspettativa di vita, infatti, varia notevolmente da Nord a Sud. «Un residente in Campania nel primo quinto della distribuzione del reddito ha una speranza di vita di quasi 4 anni inferiore a una residente in Trentino-Alto Adige con reddito nel quinto più alto», spiega il rapporto.
Occupazione, dimissioni e pensioni: com’è il lavoro oggi
Non mancano problemi legati a salari troppo bassi, e fermi da vent’anni, né le lamentele per la difficoltà di trovare un posto di lavoro. Eppure, confermano i dati dell’Inps, in Italia l’occupazione è al massimo storico (61%). Restano alcune criticità derivanti dal continuo invecchiamento della popolazione (accompagnato da un tasso di natalità tra i più bassi al mondo) e dal gap tra Nord e Sud, ancora difficile da abbattere. Resta da contrastare anche la divaricazione tra lavoro dipendente – che si attesta in crescita – e lavoro autonomo, che è invece in diminuzione.
Nonostante si sia registrato un miglioramento rispetto agli anni passati, ancora oggi i principali indicatori del mercato del lavoro italiano sono ben al di sotto delle medie stimate negli altri Paesi dell’Ue, come Germania e Francia. Ma se da un lato gli stipendi sono fermi, dall’altro gli italiani devono far fronte a spese sempre più ingenti. Rincari e inflazione gravano su famiglie e pensionati. Questi ultimi, in particolare, sono i più colpiti dall’impennata dell’inflazione nel 2022, perdendo il 10,6% del reddito reale tra il 2018 e il 2022.
Non è tutto: se da un lato c’è chi resta fedele all’azienda per una vita, e non intende cambiare, dall’altro si registra un numero crescente di dimissioni volontarie (+26% rispetto al 2019). Tuttavia, «non è un ritiro dal mercato del lavoro. Bensì un’aumentata mobilità, alla ricerca di migliori condizioni». A spiegarlo è Micaela Gelera, commissaria dell’Inps, la quale fa sapere che «la temuta grande ondata di licenziamenti post pandemia non si è verificata. La Naspi, così come gli altri ammortizzatori sociali, sono tornati a svolgere un ruolo ordinario di supporto del lavoratore in periodi temporanei di inattività».
Non solo nel mondo del lavoro: a mettere le donne sempre un gradino sotto gli uomini ci pensano persino le pensioni… Dal rapporto Inps, infatti, emerge che gli uomini percepiscono il 36% in più delle donne. Secondo l’Istituto nazionale della previdenza sociale, la causa del divario sarebbe da individuare nelle carriere intermittenti delle lavoratrici. La colpa, inoltre, sarebbe di stipendi che ancora oggi sono più bassi rispetto a quelli percepiti dai colleghi uomini. Si calcola una media di 1.932 euro contro 1.416 euro. Sono proprio le donne, inoltre, ad andare in pensione più tardi: a 64,7 anni, in media, contro i 64,2 degli uomini. Nel 2012 era il contrario: 62 anni per gli uomini e 61,3 per le donne.