Davvero al giorno d’oggi non si può essere madri e donne in carriera? È la realtà o un retaggio maschilista, di una società che si spera sia solo un lontano ricordo? Se ancora una donna che vuole lavorare rischia di essere esclusa solo perché vorrebbe costruire una famiglia, significa che i passi da fare sono ancora tanti, forse troppi. In fase di colloquio, a chi sta dall’altra parte della scrivania non dovrebbe minimamente interessare se sei sposata, hai figli o intendi averne. Eppure, le donne raccontano una situazione diametralmente opposta…

Colloquio di lavoro, i figli influenzano il risultato finale?

Ti sei preparata al meglio anche per questo ennesimo colloquio di lavoro e sul più bello scappa quella fatidica domanda. “Vuole avere figli?”, chiedono ancora troppo spesso i recruiter alle donne che aspirano a un posto di lavoro. “Non sono affari tuoi”, verrebbe da rispondere. Ebbene sì, perché la domanda è illegale e le richieste di spiegazione su eventuali “vuoti di carriera”, i cosiddetti “career break”, ai sensi dell’Equality Act potrebbero essere passibili di denuncia per discriminazione e molestie. Se certe domande sono ancora piuttosto frequenti, forse è vero che l’Italia non è un Paese per mamme lavoratrici.

Donna in carriera e in dolce attesa

Si lanciano allarmi sulla crescente denatalità che riguarda proprio il nostro Paese e poi, sul lavoro, troppo spesso non viene minimamente valorizzata la donna che vuole una famiglia e dedica del tempo ai figli. Anzi, rischia di non trovare un’occupazione o persino di perderla. Lo dimostra il sondaggio condotto da “People Management”, che ha analizzato un campione di oltre 2000 donne manager: durante un colloquio di lavoro, 4 donne su 10 hanno ricevuto domande sulla propria vita privata, in particolare è stato chiesto loro se fossero impegnate in famiglia nella cura dei bambini o se un domani desiderassero avere figli.

Non è tutto: i recruiter in molti casi hanno chiesto spiegazioni sui loro “vuoti di carriera”, cioè i periodi in cui non hanno lavorato. La situazione cambia per le donne che non ricoprono ruoli senior: solo il 18% di loro dichiara di aver ricevuto le stesse domande in fase di selezione. Per il 38% delle donne intervistate la causa del “career break” è stata la cura dei bambini, che le ha costrette lontane dal posto di lavoro per almeno sei mesi. Non vale lo stesso per gli uomini: i padri che si sono dovuti assentare per sei mesi o più costituiscono solo l’11% degli intervistati.

Il problema però è che la maternità ancora oggi limita la carriera delle donne. Ben due terzi delle mamme lavoratrici, infatti, dichiara di aver dovuto dire addio alla carriera professionale dopo la nascita dei figli. Inoltre, per il 40% delle madri ancora occupate è difficile coniugare professione e famiglia, dovendo spesso completare l’attività al di fuori dell’orario lavorativo.

La flessibilità sul lavoro è possibile?

Dalle ultime indagini condotte, sembrerebbe che la maggior parte dei titolari sia disponibile nei confronti delle madri lavoratrici, garantendo una certa flessibilità. È quanto si evince da un sondaggio di “Careering into Motherhood” condotto su un campione di oltre 2000 lavoratrici con figli minorenni. Il 92% di loro afferma che il proprio datore di lavoro è ricettivo alle richieste di flessibilità. Tuttavia, simili riconoscimenti sono ancora inesistenti in molte realtà lavorative. Quasi 4 mamme lavoratrici su 10 (pari al 38%) non hanno fatto domanda di lavoro flessibile. Il 46%, inoltre, ritiene che una richiesta simile possa impattare negativamente sulla propria carriera, limitando le opportunità future.

Colloquio di lavoro

Al contrario, modelli di lavoro innovativi, che prevedono per esempio la settimana di quattro giorni, possono rivelarsi di grande aiuto per le madri in carriera. In tal caso, destreggiarsi tra vita privata e lavoro diventa più semplice. Nel Regno Unito la settimana lavorativa composta da quattro giorni ha portato risultati più che soddisfacenti. E molte aziende sarebbero già pronte a seguirne l’esempio…

Donne, colloqui e domande illegali

Stando a quanto stabilito dal Codice delle pari opportunità, un datore di lavoro commette un illecito ogni volta che chiede a un candidato, uomo o donna che sia, se abbia o meno intenzione di avere figli. L’articolo 27 del decreto, in particolare, sancisce il divieto di “qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione (…) anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive”. Eppure…

La legge c’è, ma spesso non viene applicata. “Vuole avere figli?” è una domanda ancora spesso pronunciata in sede di colloquio, ma non solo. La si trova anche nei test di selezione scritti, rivolti a uomini e donne, alla luce di una presunta parità di trattamento, che alla fine però non sussiste. Al contrario, agiscono spesso dei pregiudizi inconsci che influenzano l’esito della selezione. Il più delle volte se un uomo esprime il desiderio di diventare padre, il datore di lavoro sarà più propenso a considerarlo serio e affidabile. Se però a volere dei figli è una donna, l’intervistatore tenderà a giudicare negativamente la candidata, considerando la gravidanza una sorta di assenteismo ingiustificabile. Insomma, sono ancora tanti i passi da compiere in fatto di discriminazioni sul lavoro, persino in fase di colloquio.

Donna incinta

Il Codice delle pari opportunità in vigore dal 2006 vieta ogni forma di discriminazione che riguardi lo stato sentimentale, di famiglia o di gravidanza. Quindi non è lecito interrogare una candidata sul suo eventuale desiderio di maternità. Allo stesso modo, non è legale fare selezione del personale in base a orientamento sessuale o stato matrimoniale.

Ma quali altre domande non dovrebbero essere chieste a una donna in fase di colloquio? Al recruiter non deve interessare lo stato di salute della candidata. Insomma, chiedere se “ha qualche malattia cronica?” o “soffre di depressione” non è legale. In presenza di una forma di disabilità però, la candidata rientrerebbe nelle categorie protette. La lavoratrice deve quindi precisarlo nel curriculum, trattandosi di un approccio agevolato al mondo del lavoro. Durante un colloquio, al fine dell’assunzione, è anche vietato chiedere alla candidata se professa una religione o se il suo credo comporta il rispetto di determinate festività.

Non è legale chiedere a una donna (e a un uomo) se ha avuto problemi con precedenti datori di lavori, “a meno che non si tratti di caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa o che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa”, si legge nel decreto. “Ha subito delle molestie in ufficio?”, “Il suo ex titolare l’ha mai richiamata?” o “Cosa pensava del suo ex capo?” sono domande che non si potrebbero fare. L’eventuale risposta, infatti, potrebbe condizionare l’esito del colloquio stesso.