Il ventennio dei Benetton in Autostrade sta per chiudersi: è la coda del processo iniziato con il crollo del Ponte Morandi del 14 agosto 2018 e le sue 43 vittime, proseguito con 2 anni di pressioni e polemiche politiche, concluso con la decisione del governo che porterà la famiglia veneta ad abbandonare il controllo di Aspi, la società che gestisce quasi metà dei 7.000 chilometri di vie a pedaggio in Italia. La concessione statale più succosa. Conquistata con la privatizzazione di Autostrade fra il 1999 e il 2003 versando circa 11 miliardi di euro al ministero del Tesoro, che aveva il duplice obiettivo di fare cassa e migliorare la gestione senza accumulare altro deficit. La rete che fino a pochi anni prima era un vanto dell’Italia in Europa, infatti, iniziava a richiedere ampliamenti e manutenzioni.
La gestione privata ha portato molti profitti, poca manutenzione, regole opache
La formula scelta, mai rivista da allora nonostante le obiezioni europee e quelle dell’Antitrust, è la concessione pluriennale senza gara: Aspi (così come le società più piccole che controllano altre tratte) incassa i pedaggi e pensa a manutenzione e servizi, e intanto paga un canone annuo allo Stato. Negli anni che precedono la tragedia di Genova, però, qualcosa si inceppa. «Dal 2007 al 2017 le tariffe della rete Aspi aumentano del 41% mentre il traffico cala del 3%» spiega Veronica Vecchi, docente di Government, Health e Non profit all’università Bocconi di Milano. In pratica, i concessionari fanno utili crescenti incassando dividendi sempre più ricchi, mentre il flusso di denaro che torna allo Stato rimane lo stesso.
Ma il problema principale è un altro e lo metterà nero su bianco nel 2019 la Corte dei Conti: tra rinnovi senza gara, proroghe dei lavori e clausole opache, la libertà d’azione di Aspi cresce mentre ammodernamento e manutenzione della rete autostradale latitano. Il sistema, insomma, finisce per «sacrificare l’interesse generale a favore di quello privato». La contrapposizione tra Stato e mercato ha segnato gli ultimi 2 anni, nonostante le 2 epoche non siano paragonabili perché al tempo della gestione pubblica le strade erano più nuove e il traffico meno sostenuto. «Il tema vero» nota Vecchi «è la capacità dello Stato di essere un attento e forte regolatore quando affida le sue infrastrutture a gestori privati».
La “nazionalizzazione a metà” servirà ad avere maggiori controlli
Che qualcosa nel caso di Autostrade sia andato storto lo dimostra la difficoltà della politica nel revocare la concessione ad Aspi per tornare alla gestione diretta, secondo molti la soluzione più efficace. Un percorso di questo tipo sarebbe costato 23 miliardi di penali allo Stato e avrebbe messo in ginocchio la stessa Aspi, che sarebbe diventata una società vuota, con debiti non più garantiti dal flusso dei pedaggi.
«Si è scelta una terza via» continua l’esperta «che non è una nazionalizzazione, perché non cancella il sistema concessorio dell’infrastruttura ai privati». Solo che in Aspi entrerà un socio pubblico, la Cassa depositi e prestiti, che assieme ad altri investitori apporterà capitale diluendo la quota dei Benetton, con l’obiettivo di escluderli entro un anno.
Cosa deve fare ora lo Stato per dimostrare che la formula può funzionare? Quello che non ha fatto prima. Cioè, secondo Vecchi, «monitorare il livello dei servizi offerti, prevedendo forti penali se il gestore, per esempio, lascia aperti in eterno i cantieri. E poi abbassare le tariffe: in questo aiuterà l’adesione al nuovo regolamento dell’Autorità dei trasporti, che prevede un tetto ai ricavi del concessionario».