Michela Piccione ha una voce gentile e un italiano colorato da un leggero accento pugliese. Parla chiaro ed è spigliata, si capisce subito che con le parole ci sa fare. Come potrebbe essere altrimenti, se gli ultimi 8 dei tuoi 36 anni li hai passati seduta in un call center, usando proprio le parole per vendere qualunque cosa. «Ho proposto di tutto» dice quasi ridendo. «Pacchetti telefonici, contratti di luce e gas, prodotti assicurativi. E ho ricevuto di tutto, dagli insulti a squallide avances. Dove sono nata, in provincia di Taranto, l’unico lavoro che non manca è questo, anche per chi come me ha un diploma di tecnico chimico biologico».
Il coraggio di rivendicare i propri diritti
La sua storia lavorativa è iniziata nel 2013, in un grande gruppo di telemarketing, «uno di quelli dove ti pagano i contributi e se ci sai fare porti a casa un buono stipendio». Ma questo è un settore precario per definizione e nel tempo Michela è arrivata ai “sottoscala”, centralini dove puoi restare in cuffia per ore per pochi euro al giorno. È proprio da posti come questi che partono molte delle telefonate di vendita moleste che tanto ci assillano, le più insistenti e le più aggressive, perché qui la legalità è un optional e chi sta dall’altra parte farebbe di tutto per strapparci un sì.
Vedendo cosa accadeva, tre anni fa Michela Piccione ha denunciato il suo datore di lavoro, prima donna a uscire allo scoperto, senza anonimato e con tanto coraggio. Ed è proprio per quel coraggio che ha ricevuto la nomina a Cavaliere dell’Ordine al merito dal Presidente della Repubblica Mattarella.
«Chi lavora in questi luoghi non ha diritti» dice subito. «Io ci sono finita nel 2017, rispondendo a un’inserzione sul web che cercava venditori per un colosso di telefonia. Il contratto prevedeva 6,51 euro lordi a ora per 6 ore al giorno, più le provvigioni, con pagamento a 60 giorni. Il posto era uno scantinato nel centro di Taranto, senza norme di sicurezza: lavoravamo addossati in due stanzette in cui ci alternavamo in 35, su due turni, c’era un solo bagno e la carta igienica dovevamo comprarla noi. Se arrivavi in ritardo erano urla, come se fossimo animali, per alzarti serviva il permesso. Ma il bello è che le ore lavorate erano calcolate solo sui minuti di talking, quelli che passavamo parlando con i clienti. L’ho scoperto quando la mia vicina di scrivania ha ricevuto la prima busta paga e ha trovato solo 92 euro. Non ci ho visto più, l’ho portata alla Cgil e abbiamo fatto la denuncia».
Il giorno successivo l’ufficio aveva già chiuso, i responsabili spariti. «Qualche collega non l’ha presa bene, gli avevo fatto perdere il lavoro. All’inizio mi guardavano male. Qui i diritti contano fino a un certo punto, bisogna tenersi stretta anche una paga da miseria, perché quando l’alternativa è il nulla anche 100 euro fanno comodo. Si diventa schiavi, come quei braccianti costretti a stare al sole o al gelo per pochi spiccioli. Io ho potuto denunciare perché mio marito è un artigiano, sapevo che se fossi rimasta senza lavoro ci avrebbe pensato lui a pagare le bollette».
Caccia ai call center illegali
La guerra di Michela non si è chiusa con quella prima denuncia e lei non ha nessuna intenzione di fermarsi. Oggi va a caccia di call center illegali. «Quando ho tempo continuo a guardare gli annunci web. Seleziono le inserzioni, chiamo per chiedere informazioni o vado ai colloqui. Grazie ai sindacati e all’aiuto dei giornali ne hanno chiusi tre, ma non basta, è una goccia nell’oceano. Sembra che nessuno veda e nessuno parli. Di questo ho scritto alla Regione Puglia e a Mattarella. Vorrei capire perché è così difficile vigilare, perché tutti fanno finta di non vedere, chiudono gli occhi».
Quando in realtà bisognerebbe accendere i riflettori per far luce su situazioni assurde, al limite della miseria. Del telemarketing che sfrutta i lavoratori per assillare o addirittura truffare i consumatori, Michela conosce ogni trucco. Negli anni ha visto girare liste di numeri «raccolti spesso dai concorsi online a cui diamo il consenso per caso, o a volte nemmeno lo diamo», ha visto colleghi inserire dati senza autorizzazione, forzare la mano pur di convincere un cliente. «C’era chi evitava di parlare di costi, chi inventava risparmi inesistenti, chi interventi tecnici gratuiti, quando gratuiti non erano. Non li giustifico, io non l’ho mai fatto. Ma capisco perché. Quando sei lì devi vendere a tutti i costi, perché cinque volte su dieci sai che se a fine giornata non avrai portato a casa almeno un certo numero di contratti, in tasca non ti arriverà neanche un euro».
Michela oggi non ha un impiego fisso e nei call center, quelli seri, ci torna ancora, per brevi periodi. «Lì le cose funzionano diversamente anche se questo non è il lavoro della mia vita, è un mestiere che ti logora e io non voglio più rischiare di non dormire la notte perché non ho raggiunto l’obiettivo del mese. Adesso ho un contratto a tempo come operatrice per la sanificazione in un ospedale di Manduria, nei reparti Covid. Non è un lavoro di alto profilo, ma a me piace, mi sento utile e le mie nonnine mi aspettano tutti i giorni». Il futuro? «Continuare a fare concorsi e corsi di formazione, lavorare e chissà, magari riuscire a entrare nel sindacato. Ho già sbagliato in passato, quando, dopo il matrimonio, ho lasciato l’università e abbandonato il concorso in Marina. Ora ho due figli e anche per loro voglio essere indipendente».
Sono ancora troppo poche le denunce
Dimenticate le scene di Tutta una vita davanti, il film di Virzì che per primo ha raccontato la dura vita nei call center. Oggi l’universo del telemarketing può essere molto peggio perché è un puzzle di mille realtà, dove rientrano grandi aziende serie ma anche i “cantinari”, centralini improvvisati che aprono e chiudono alla velocità della luce.
«Nei gruppi più strutturati vengono impiegati circa 60-70 mila lavoratori, tutelati con contratti che permettono di prendere un fisso anche di 500-600 euro per un impegno di mezza giornata» spiega Riccardo Saccone, segretario nazionale Slc Cgil. «Ma questo è un mercato drogato dove chiunque può aprire un call center anche dal nulla, senza mai avere rapporti con il committente finale». Bastano una stanza, una linea telefonica e pochi dipendenti senza diritti. Che, se possono, lasciano dopo i primi mesi, ma senza fare denuncia. Alla Cgil ne arrivano in tutto 30-40 all’anno.