Il reddito di cittadinanza “all’italiana”, che dovrebbe vedere la luce nel 2019, ha poco del “reddito universale di base” e molto del sussidio di disoccupazione per chi è in cerca di lavoro e sotto la soglia di povertà. Visto quanto emerso nella proposta del governo, dovrebbero essere i già operativi Centri per l’impiego a gestire la presa in carico dei soggetti disoccupati e beneficiari del reddito di cittadinanza, facendo loro arrivare le famose due offerte di lavoro congrue e rifiutabili, e poi, nel caso, la terza. Quella per la quale non sarebbe ammesso il “no”, pena la decadenza dell’assegno. Proviamo a capire che cosa sono e come funzionano questi Centri per l’impiego (Cpi).
Cosa sono e come sono gestiti
Sulla carta è tutto semplice: i Cpi dovrebbero funzionare come agenzie di collocamento, incrociando le esigenze delle imprese del territorio con le liste delle persone in cerca di un impiego. Purtroppo la percentuale di successo è bassissima: appena il 3,4% degli utenti trova lavoro.
Perché? Forse conta l’organizzazione azzoppata. Meglio dire… da mal di testa. A livello nazionale le cosiddette “politiche del lavoro”, ossia tutte le attività che mirano ad aiutare le persone in cerca di un’occupazione, sono coordinate dall’Anpal, l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro. Questa monitora anche gli uffici pubblici di collocamento, appunto i Cpi. Ma attenzione: questi poveri uffici di collocamento hanno cambiato padrone troppo spesso negli ultimi 20 anni. Dal Ministero del lavoro sono passati sotto le province nel 1999, che nel 2011 si sono viste sottrarre i fondi per farli funzionare. Nel 2012 è arrivato il blocco delle assunzioni. Dal 2014 è iniziata la migrazione verso le regioni, oggi ancora non completata. Ed ecco che ci ritroviamo in una situazione già vista in Italia, con differenze territoriali enormi. Dal centro di eccellenza nel Nord-Est all’ufficio pieno solo di carta e senza connessione a Internet nel profondo Sud.
Non basta? Allora leggiamo il rapporto Anpal 2017, che ha monitorato l’attività di questi centri e ne definisce «magmatica» la geografia: «L’offerta funzionale dei Cpi presenta una pluralità di dimensioni problematiche: inadeguatezza delle competenze del personale, insufficienza numerica degli organici, organizzazione “emergenziale” del lavoro, carenza di infrastrutture, sottodimensionamento del personale specializzato». Per non infierire, sarebbe bene fermarsi qui.
I numeri
Invece proseguiamo con i numeri. I Cpi sono 501 in totale in Italia (218 al Nord, 93 al Centro, 190 nel Sud e nelle isole) con 7.934 operatori che devono gestire in media 274 disoccupati a testa.
In teoria dovrebbero “parlarsi” (e parlare con altre istituzioni, tipo l’Inps o l’Agenzia delle entrate) attraverso il Sistema informativo unitario delle politiche del lavoro. In pratica, il rapporto è impietoso: la metà dei Cpi ritiene inadeguata la propria dotazione informatica (si sale al 72% al Sud). Il 36% è «impreparato alle nuove interconnessioni con il Sistema informativo unitario». Aggiungiamo pure che l’1,5% dichiara di lavorare… off line, perché non ha collegamento alla rete!
Poiché i centri devono anche gestire attività amministrative – come l’iscrizione alle liste di mobilità e agli elenchi e graduatorie delle categorie protette, la registrazione delle assunzioni, le trasformazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro, il rilascio del certificato di disoccupazione – capita spesso che diventino degli uffici tutti burocrazia e scartoffie e poca sostanza.
Chi li usa e per cosa
Chi si rivolge ai Cpi? Il rapporto analizza anche l’utenza prevalente. Vincono (ahiloro) i giovani cosiddetti Neet (84,1%), quelli che non lavorano, non studiano e non fanno training di nessun tipo. Seguono i disoccupati beneficiari di ammortizzatori sociali (57,7%) e i disoccupati di lunga durata (36%). Cosa chiedono? In prevalenza, aiuto nella ricerca di lavoro e nel disbrigo delle pratiche amministrative, anche legate agli ammortizzatori sociali. Va detto che certe caratteristiche degli utenti, come la scarsa propensione a spostarsi sul territorio, il fantomatico “mismatch” delle qualifiche unito alla cronica carenza di lavoro in alcune aree, contribuiscono a tirare verso il basso la percentuale di successo del collocamento pubblico – ma sono le storiche difficoltà del sistema-Italia.
La proposta di riforma
Proprio da un investimento in personale e adeguamento informatico dovrebbe passare la ristrutturazione dei Cpi. Almeno nelle intenzioni del governo, che pare voglia spendere più di 2 miliardi di euro nel loro potenziamento. Significa assumere più operatori, perché a fronte dei nemmeno 8mila del nostro sistema pubblico, i nostri cugini europei sono messi decisamente meglio: sono 98.739 gli addetti in Germania, 74.080 nel Regno Unito, 54mila in Francia; solo la Spagna è vicina, con 8.945 operatori. Già, ma chi assumere? Quello che serve è personale specializzato, soprattutto orientatori/psicologi e mediatori culturali. Ma anche molti consulenti aziendali, ossia operatori che possano interfacciarsi davvero con le aziende e le loro esigenze. Altrimenti domanda e offerta resteranno su strade divergenti, proprio come accede ora.