La prima cosa che colpisce di Angela Tripi, imprenditrice di Palermo che da 40 anni ha un laboratorio di sculture in terracotta conosciuto in tutto il mondo e un negozio in centro, è il tono della voce: una voce stanca, sofferente, rassegnata. «Ho passato notti insonni a piangere, a cercare una soluzione per non chiudere quest’attività che per me è molto di più di un lavoro: è la mia vita, i miei sogni, la mia sicurezza per la vecchiaia» racconta.
Un’attività che Angela ha aperto da ragazza, investendo tutti i suoi risparmi dopo essersi laureata in ragioneria e che negli anni è cresciuta fino a diventare una micro-impresa con 10 dipendenti. Ora aspettano una cassa integrazione che, mentre facciamo l’intervista, non è ancora arrivata. «Sono tutti ragazzi giovani, a cui ho insegnato io il mestiere» dice Angela. «Vederli con gli occhi gonfi di lacrime perché non hanno soldi per campare è un dolore enorme».
Il prestito da 25.000 euro che non è (quasi) mai arrivato
Una ferita che brucia ogni giorno di più, un macigno che toglie il respiro, una sconfitta che non dà pace. Non solo ad Angela. Perché lei è una dei tanti imprenditori che in questi mesi hanno chiesto alla banche il prestito da 25.000 euro che doveva essere concesso “a occhi chiusi” ma che in realtà non è (quasi) mai arrivato.
A confermarlo sono i dati della Commissione parlamentare sul sistema bancario secondo cui, all’inizio di giugno, la metà dei piccoli imprenditori risulta ancora in attesa: i prestiti accolti o erogati sono 290.114, le domande presentate 559.139. E va peggio per quelli fino a 800.000 euro: li hanno ricevuti solo 1 su 4 (il 25%). Insomma, il cosiddetto bazooka messo in campo dal governo nel decreto Liquidità per far arrivare denaro immediato alle piccole e medie imprese grazie alla garanzia al 100% dello Stato si è rivelato una miccetta.
Incertezza e lungaggini burocratiche
Eppure, i buoni propositi c’erano. A partire da una procedura semplificata. «Tutto sarebbe dovuto essere facile e veloce. Gli imprenditori avrebbero dovuto presentare solo una domanda e l’autocertificazione alla filiale bancaria per avere in pochi giorni i soldi necessari» spiega Paolo Ferré, membro della giunta di Confcommercio con delega al credito e presidente di Federascomfidi. Ma per molti non è stato così.
Lo sa bene Angela, che quando ad aprile è andata in 3 banche per ottenere quel denaro fondamentale per riprendere fiato, ricominciare a camminare e magari anche a investire («Nei mesi del lockdown tra ordini disdetti e fatture mai saldate abbiamo perso più di 60.000 euro» racconta) ha dovuto presentare una mole infinita di documenti. «Altro che uno solo! Ogni settimana me ne chiedevano uno diverso, ne mancava sempre qualcuno e intanto i giorni passavano e i moduli, difficilissimi da compilare, aumentavano» dice. «Un problema all’inizio è stato proprio la mancanza di linee guida, l’opacità delle pratiche: non c’era una procedura chiara e uguale per tutti e spesso ogni banca ne metteva in atto una propria» spiega l’esperto.
Insomma, a farla da padroni, come spesso succede nel nostro Paese, sono incertezza, diffidenza e burocrazia. «Bisogna aggiungere poi il fatto che gli istituti di credito nei primi mesi di lockdown erano sommersi dalle richieste di rinegoziazione dei mutui e, complice il personale ridotto, non riuscivano a fare fronte a quelle dei prestiti che continuavano ad aumentare. Solo un numero, per dare l’idea dei volumi: le domande inviate al Fondo centrale di garanzia sono passate in 2 mesi da una media giornaliera di circa 500 a una di circa 20.000».
Prestiti vs contributi a fondo perduto
Al dil à delle lungaggini dovute all’analisi dei requisiti delle singole aziende, il problema sembrerebbe essere a monte, come spiega Paolo Ferré, e risalire al fatto che le piccole imprese dovrebbero essere sorrette con contributi a fondo perduto piuttosto che con prestiti. Come succede in Germania, dove governo federale e lander hanno erogato alle realtà con meno di 15 addetti fino a 15.000 euro a fondo perduto. A peggiorare il quadro poi, c’è la questione che il decreto Liquidità non impone alle banche un tempo massimo per chiudere l’istruttoria. Quello che è accaduto ad Angela. «Ho aspettato più di un mese: mai nessuna conferma. Io e mio marito chiamavamo ogni giorno in banca ma nessuno sapeva dirci che fine aveva fatto la nostra richiesta» racconta l’imprenditrice che, al ricordo di quei momenti, non trattiene le lacrime.
Dopo circa 40 giorni, solo un istituto risponde, purtroppo in maniera negativa. Dagli altri, silenzio. È a quel punto che Angela, presa dalla disperazione, decide di fare un ultimo tentativo e si rivolge a un Confidi: un consorzio sul territorio che, oltre a svolgere attività di prestazione di garanzie per agevolare i finanziamenti, può anche erogare denaro. «Non ci speravo più. Ero rassegnata a chiudere sia il laboratorio sia il negozio». Invece dopo soli 10 giorni riceve la telefonata che le cambia la vita, che le fa tornare il sorriso, che le regala notti serene. «Non ci volevo credere: il prestito era stato approvato e in una settimana quei 25.000 euro erano già sul conto corrente». Anche adesso Angela piange. Ma questa volta di felicità. Perché finalmente può riaprire il negozio e a breve, spera, anche il laboratorio.
→ Prestiti alle Pmi: tutto quello che devi sapere
I prestiti coperti al 100% dal Fondo di garanzia a supporto delle Pmi (fino a 499 dipendenti) sono stati alzati fino a un importo massimo di 30.000 euro e la durata passa dagli attuali 6 anni massimo a 10. È quanto è stato stabilito dall’Abi in una circolare pubblicata in Gazzetta ufficiale il 6 giugno.
I tassi passivi sono stati definiti «vicini allo zero» ma ogni banca applica il suo. E la somma che si può richiedere non deve superare il 25% del fatturato del 2019. Ma sono sempre di più le imprese che si vedono negato questo prestito dalle banche e che si rivolgono ai Confidi, ovvero consorzi sul territorio che, in alcuni casi, possono anche erogare denaro (confidiperleimprese.it).