Una persona con disabilità trova lavoro? Chi vive sulla carrozzella riesce a lavorare? Il 10 marzo è la Giornata della malattie neuromuscolari, una serie di patologie a livello neuromuscolare che comportano gradi diversi di disabilità, da una lenta e progressiva riduzione della capacità respiratoria, al peggioramento della deglutizione e della capacità di comunicare, fino alla perdita delle capacità motorie, per cui diventa impossibile camminare. Tra queste, rientra la distrofia muscolare, forse la più nota, malattia genetica che in Italia colpisce 20mila persone e rende difficile compiere anche le cose più semplici di tutti i giorni.
Alle aziende interessa ricoprire le quote assegnate per legge
Eppure, anche con una patologia come questa molte persone, nonostante le difficoltà, i muri non solo fisici ma soprattutto mentali e culturali, conquistano margini di indipendenza e autonomia, anche economica. Come Anna Mannara, 35 anni, di Sarno (Salerno), in carrozzina da quando ne aveva 17. Oggi gestisce la sua parafarmacia, dopo aver preso due lauree, una in Chimica e tecnologie farmaceutiche e l’altra, nel 2017, in Scienze della Nutrizione umana. «Mi presentavo ai colloqui ma, nonostante la laurea, non venivo mai selezionata. Neanche in quelli mirati, perché ciò che le aziende ricercano per queste posizioni obbligatorie sono figure contabili e amministrative, anche nel mio settore. Quindi persone che stiano prevalentemente sedute, che “non diano problemi”» racconta Anna.
Le aziende vedono prima la malattia, dopo la persona
Neanche lei “dà problemi”, ma le sue competenze vengono regolarmente messe in ombra dalla sua carrozzina. «Prima veniva la mia malattia, poi io. Nelle disabilità come la mia, quello che passa è solo la difficoltà a spostarsi, che per un datore di lavoro implica ripensare le procedure, riorganizzare spazi e attrezzature, mentre una semplice scrivania risolve tutto» ci racconta. «Neanche guardavano il mio curriculum. Venivo subito scartata per la questione della mobilità».
Dalla sua condizione, comunque, Anna non ha mai tratto vantaggio. «Durante gli esami all’università non chiedevo di passare prima degli altri, anche se avrei potuto. Alcune persone come me hanno ingaggiato vere battaglie per farsi dare un posto di lavoro. Io non me la sono sentita. Ho sempre pensato che le cose te le devi guadagnare con dignità. Io mi conquisto anche un bicchier d’acqua, senza favoritismi. Anche perché le discriminazioni esistono nella realtà di tutti i giorni, dai marciapiedi con i buchi alle macchine che ostacolano il passaggio, alle scale. Non mi voglo mettere io in una situazione di discriminazione al contrario».
Anche un disabile può diventare imprenditore
Le difficoltà incontrate nelle varie selezioni hanno spinto Anna a mettersi in proprio. Con l’aiuto della famiglia (sono in quattro fratelli) ha potuto aprire la parafarmacia nel suo paese. Ora sta per realizzarne il sito internet e l’e-commerce, ha prodotto una linea di cosmetici, vorrebbe aprire un laboratorio tutto suo e intanto sta seguendo una scuola di specializzazione in Nutrizione. «Non smetto di sognare, nessuno dovrebbe farlo. Perché avrei dovuto rinunciarci io? Perché non cammino? Non mi sento sfortunata, sono così e basta. Volevo fare la ricercatrice e non ci sono riuscita, ma sto facendo tantissime altre cose». Tra queste, anche il consigliere per la UILDM (Unione Italiana lotta alla distrofia muscolare), l’associazione nata nel ’61 con l’obiettivo di combattere le distrofie e promuovere la piena inclusione sociale delel persone con disabilità, promuovendo ili diritto allo studio e al lavoro, alla mobilità e alla possibilità di accedere ad attività per il tempo libero.
Quanti sono i disabili disoccupati?
L’esperienza di Anna può essere d’ispirazione per le tante persone disabili che hanno rinunciato a cercare lavoro. «Oggi le persone con disabilità iscritte al collocamento sono poco di più di 18mila» spiega l’avvocato Silvia Bruzzone, direttore dell’Osservatorio Chronic Diseases and Work Adapt. «Ma questa cifra non rappresenta il reale numero dei disabili disoccupati, perché negli ultimi anni il numero degli iscritti si è ridotto per ragioni amministrative, dovute alla cancellazione dell’obbligo di iscrizione alle liste del collocamento da parte dei beneficiari di pensioni di invalidità. Oggi possiamo dire che quasi 80mila persone hanno rinunciato a cercare un lavoro: quindi negli ultimi anni il numero di persone inattive con disabilità è aumentato. E tra il totale delle donne disoccupate, le disabili sono la metà (mentre tra gli uomini, quelli con disabilità rappresentano un terzo)».
I motivi sono tanti. Primo fra tutti, lo stigma culturale per cui il sordo non può rispondere al telefono e il cieco può fare solo quello. La normativa italiana di certo non aiuta nel percorso di un cambiamento culturale che si attende da tempo: «La legge usa ancora termini come invalido, handicappato, minorato della vista che fanno pensare a una persona “diversa” in accezione negativa» prosegue l’avvocato Bruzzone. «L’ultima legge sull’inserimento lavorativo delle persone con disabilità è la n. 68 del 1999, che prevede le quote minime da rispettare in azienda. Da allora, si è continuato a ragionare per quote, guardando quello che la persona non sa fare, invece di ciò che sa e può fare».
La legge sulle quote è cambiata dal 1 gennaio 2018
Per spingere le aziende ad assumere sempre più persone disabili, dal 1 gennaio 2018 la legge è diventata più restrittiva: «Le piccole imprese, tessuto della nostra economia, appena raggiunto il 15esimo dipendente computabile hanno due mesi di tempo – 60 giorni – per assumere una persona disabile, mentre prima il tempo a disposizione erano 12 mesi a partire dalla 16esima assunzione computabile» dice Palma Marino Aimone, HR Specialist, Diversity e Disability manager e socia di Sidima, la prima e finora unica società italiana di Disability manager (una figura aziendale emergente che ha il compito di valorizzare le differenze e creare inclusione). «Se da una parte ciò rappresenta una leva per spingerle a integrare le persone disabili, dall’altra, non conoscendo la diversità e le opportunità che questa offre – non solo culturali ma anche fiscali e di business – le aziende preferiscono rischiare la sanzione piuttosto di assumere. Eppure, esistono incentivi sia nazionali che regionali».
La disabilità va gestita in chiave manageriale
Dal futuro, ci si aspetta di utilizzare sempre più una chiave manageriale per gestire la disabilità nel lavoro, e non assistenzialista: ragionare non per sottrazione guardando alla persona con disabilità, ma per addizione, cioè valutando le sue competenze. Senza contare che una politica di inclusione genera business. E oggi si comincia a vedere. «In base agli ultimi studi, le aziende percepite come inclusive registrano un amento dei ricavi del 16,7 per cento» dice Sandro Castaldo, docente di Marketing all’Università Bocconi di Milano e presidente del comitato scientifico del Diversity Brand Summit, evento europeo che ha studiato la relazione tra diversity e business. Insomma, dall’inclusione le aziende ricavano vantaggi in tema di performance e produttività. «La disabilità rientra nel panorama più vasto delle diversità. Le trasformazioni demografiche, geografiche e socioculturali degli ultimi 20 anni, ci impongono di gestire la diversità» prosegue l’avvocato Bruzzone. «Le società sono sempre più multietniche, anziane, con nuovi tipi di disabilità (soprattutto psichica) e ammalate: per esempio, in Italia, gli alunni disabili sono quasi 250mila (compresi i giovani con disturbi dell’apprendimento, i DSA), nel 2020 i disabili saranno quasi 5 milioni, il 39 per cento di chi lavora ha una malattia cronica e nel 2050 ben 78 persone su 100 avranno più di 65 anni». Uno scenario complesso e in cambiamento, in cui il concetto di “normalità” si smaglia sempre più, eroso dalle differenze.
Alla fine, chi può definirsi davvero normale?