Le donne lavorano il doppio, ma sono pagate di meno: sia in termini di stipendi veri e propri, che restano inferiori a quelli degli uomini anche a parità di mansioni e posizioni, sia in termini di ore impegnate nella cura della famiglia e della casa, che rappresentano una forma di lavoro non retribuito. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo (Ocse), la quantità di tempo dedicato da madri e mogli italiane agli impegni dei figli, alle faccende domestiche e ai trasferimenti è pari in media a 306 minuti al giorno, cioè 5 ore, mentre i loro mariti e compagni non vanno oltre i 131 minuti, ovvero poco più di due ore al giorno.
Si tratta di tempo sottratto al lavoro retribuito: “Le donne italiane continuano a lavorare meno della media di quelle europee, per sopperire a carenze del welfare, diventando veri ammortizzatori sociali per le famiglie” spiega la sociologa Elisabetta Ruspini, docente presso l’Università Bicocca di Milano. Per le donne, dunque, la beffa è doppia: lavorano di più, ma sono pagate di meno. Si tratta del cosiddetto Gender Gap che, secondo il 24° Rapporto sulle Retribuzioni, realizzato con dati elaborati da OD&M Consulting, oscilla tra l’8,1% e il 13,5%, a seconda dell’inquadramento lavorativo. “Nel nostro Paese scontiamo anche un mercato del lavoro che è molto coerente rispetto ai modelli storici e culturali, oltre al fatto che quasi il 90% delle imprese è di piccole e medie dimensioni e non può offrire servizi come i nidi aziendali” dice Alberto Vergani, docente di Sociologia del Lavoro all’Università Cattolica di Milano.
Il divario donne-uomini
Nonostante alcuni significativi cambiamenti sociali, che hanno portato ad aumentare la presenza femminile nel mondo professionale, la suddivisione dei compiti in casa in Italia rimane di tipo tradizionale: sono soprattutto le donne a prendersi cura dei figli, della famiglia e della casa. Secondo l’Ocse, si tratta di un trend non solo italiano, seppure con alcune differenze a livello mondiale. Il Messico risulta al primo posto tra i Paesi nei quali i compiti domestici sono appannaggio delle donne: le messicane vi dedicano 6 ore e 23 minuti, contro le 2 ore e 17 minuti dei loro partner. Al secondo posto l’Australia, seguita dalla Turchia e, in quarta posizione, dall’Italia. La situazione cambia decisamente, invece, nei paesi del nord Europa: in Svezia e Norvegia la differenza nel tempo riservato al lavoro non pagato si riduce a soli 30 minuti, in Danimarca a 60.
“Sono dati che non sorprendono: l’Italia si adatta sempre con lentezza e difficoltà ai cambiamenti. Inoltre il welfare non sostiene per nulla la paternità, limitando a pochi giorni il congedo di paternità obbligatorio, mentre nei paesi scandinavi è molto più ampio” afferma la prof. Ruspini.
Quali sono i lavori non pagati
Tra le singole voci di lavoro non retribuito ci sono ad esempio le faccende domestiche quotidiane: secondo l’Ocse le donne vi dedicano 205 minuti al giorno, mentre gli uomini solo 64 minuti. Anche la cura dei familiari comporta differenze di genere: sono 35 i minuti impegnati dalle donne, il doppio rispetto ai 18 minuti “richiesti” agli uomini. Stessa situazione per la cura dei figli (33′ – 16′), mentre le uniche attività nelle quali la quantità di tempo risulta pressoché identica sono il sonno (512′ – 514′) e il mangiare/bere (125′ – 129′). In genere le ore e i minuti dedicati al tempo libero sono maggiori per gli uomini, sia che si tratti di sport, che di partecipazione ad eventi o uscite con gli amici e le amiche, così come i momenti di relax davanti alla tv sono maggiori tra la popolazione maschile (117′ – 90′). L’unico caso in cui le donne superano gli uomini è quando si concedono lo shopping, anche se il divario non è così marcato: 32′ per le prime, 23′ per i secondi.
Il tempo dedicato a quello che è stato ribattezzato “lavoro nero” è sottratto necessariamente a quello professionale: in Italia gli uomini possono permettersi di impiegare in media 221 minuti a studio o lavoro retribuito, mentre per le donne si fermano a 133 minuti, con una media di 177 minuti, ben inferiore ai 261 del resto dei Pesi Ocse.
L’Italia e il “familismo”
“Oltre alla mancanza di sostegno da parte delle istituzioni, noi scontiamo il familismo: si tratta di una cultura per la quale gli interessi e il benessere della famiglia rivestono una grande importanza, maggiore rispetto a quelli della collettività. Nel nostro Paese c’è poca fiducia nello Stato, viviamo in un contesto storicamente frammentato, con differenze territoriali anche all’interno delle stesse aree o macroaree, dunque l’unica certezza è da sempre rappresentata dalla famiglia, all’interno della quale la donna fa da ammortizzatore sociale” – spiega la sociologa – “Per questo rimane una forte suddivisione dei compiti tra le figure maschili e femminili”.
Meno lavoro per le donne e pagato meno
“Le donne in Italia lavorano meno, spesso ricorrono al part time, a lavori irregolari, al telelavoro da casa, fanno In&Out dal mondo professionale quando hanno dei figli, prendono permessi e si assentano di più perché i partner sono meglio inseriti nel mondo del lavoro e hanno stipendi più alti. In queste condizioni diventa impossibile seguire una carriera lineare e dunque aspirare anche a posizioni di rilievo e a retribuzioni maggiori” dice Ruspini.
Molte lavoratrici rinunciano poi al proprio impiego quando arriva il secondo o il terzo figlio. Anche quando riescono a continuare a lavorare, però, spesso sono pagate meno dei colleghi uomini. Si tratta del Gender Gap, o differenza di genere, che secondo il Global Gender Gap Index 2017, elaborato dal World Economic Forum lo scorso novembre, ha visto l’Italia perdere posizioni in fatto di uguaglianza. Limitandosi alle opportunità economiche, il nostro Paese si colloca al 118° posto (nel 2016 era al 117°) per le disparità nella partecipazione alla forza lavoro, nei salari e nel reddito.
Secondo i dati elaborati da OD&M Consulting per il 24° Rapporto sulle Retribuzioni, in Italia nel primo semestre 2017 si è assistito a una leggera diminuzione del divario nelle buste paga, che rimangono più “pesanti” per gli uomini, a parità di inquadramento e in particolare se dirigenti, dell‘11,8%, pari a 14.076 euro di differenza. Ancora più marcato lo spostamento nel caso degli impiegati (13,6%), mentre per quadri e operai ci si ferma intorno all’8%. “Con una buona dose di ipocrisia si nega che la gravidanza sia un fattore determinante nel peso delle retribuzioni” ammette Vergani. “Rispetto a qualche anno fa, si sta assistendo ad alcuni cambiamenti (come una generale politica di gestione della Diversity nelle aziende), ma i processi di adeguamento sono molto lenti e non esistono soluzioni a basso costo e breve termine”.
Le soluzioni possibili
“Premesso che la bacchetta magica non esiste, bisognerebbe agire su tre livelli: il primo riguarda l‘incremento dei servizi sociali a supporto delle famiglie, che le istituzioni dovrebbero potenziare; il secondo ha a che fare con i luoghi di lavoro, dove le donne sono apprezzate e dovrebbero essere messe in condizioni di conciliare ufficio e casa; il terzo aspetto è invece di tipo educativo: la didattica è ancora fortemente stereotipata, mentre fin dal nido e dalla scuola dell’infanzia si potrebbe lavorare per un’educazione di genere che porti a una maggiore parità” spiega Vergani.
I cambiamenti in corso
“Qualcosa si muove e lo vediamo nelle giovani generazioni, dai Millennials in poi: tendono a seguire una maggiore parità di genere, accettano le famiglie monogenitoriali, sono più globalizzati, istruiti e aperti, ma si confrontano con le generazioni precedenti (e una popolazione sempre più vecchia), e con uno stato sociale che si è formato in un momento in cui le esigenze erano altre” spiega Ruspini . “La speranza è che nuovi legislatori più giovani possano portare i cambiamenti necessari” conclude la sociologa.