Chi, nonostante una malattia rara o una forma di invalidità, finora riusciva a lavorare anche solo per poche ore alla settimana, d’ora in poi dovrà rinunciare all’uno o all’altro. In pratica, o smetterà di tenersi impegnato, socializzare e arrotondare le entrate mensili, oppure si vedrà togliere l’assegno di invalidità. È l’effetto, immediato, di una novità introdotta dall’Inps.
Niente invalidità a chi lavora poche ore alla settimana
«Il diritto all’assegno mensile di invalidità da ora in poi sarà riconosciuto solo a chi non lavora, mentre ne saranno escluse tutte le persone che prestano servizio anche solo poche ore alla settimana». A denunciarlo è l’Osservatorio Malattie Rare (OMaR), che fa riferimento a una recente comunicazione dell’Istituto di Previdenza Nazionale. La novità, infatti, prevede un’inversione di rotta da parte dell’Inps, che finora aveva seguito un’interpretazione più estensiva della legge 118 del 1971 che regola la materia. In pratica aveva erogato l’assegno non solo alle persone prive di impiego, ma anche a chi svolgeva piccoli lavori fino a un tetto massimo di reddito di circa 4.000 euro all’anno (in caso di invalidità tra il 74% e il 99%) e fino a 15mila (per una invalidità fino al 100%), purché iscritto alle liste di collocamento mirato, cioè quelle dedicate alle persone con disabilità civile riconosciuta, e superiore anche in questo caso al 46%.
Prende la pensione di invalidità solo chi non lavora
Con la nuova circolare, invece, l’indennizzo spetterà solo a coloro che non lavorano per niente. «Purtroppo è così, per effetto della circolare Inps che ha recepito una sentenza della Cassazione. Questo, però, significa cancellare l’inclusione sociale, che passa anche evidentemente dal lavoro. Una persona con invalidità, ma in grado di svolge piccoli lavoretti o qualche forma di collaborazione ora sarà costretta a scegliere e per molti significherà restare a casa» conferma Ilaria Vacca, dello Sportello legale di OMaR, testata specializzata.
Così si perdono socializzazione e reddito
«La precisazione dell’INPS non tiene assolutamente conto che lo svolgimento di un’attività lavorativa, seppur minima, per una persona invalida, rappresenta un modo per socializzare, più che una modalità di sostentamento vera e propria. Ma adesso probabilmente in molti saranno costretti a scegliere la via dell’isolamento a discapito di quella dell’inclusione, per non perdere quel minimo di aiuto rappresentato dall’assegno mensile di invalidità – spiega ancora l’esperta – A farne le spese sono ancora una volta i più fragili».
Ma non solo. L’indennizzo in molti casi rappresenta pur sempre un contributo importante, anche se spesso non sufficiente a garantire una qualità di vita decorosa, quindi si rischia anche un impoverimento economico per chi soffre già di una invalidità. «Se si sceglie di non lavorare e optare per l’assegno, nel migliore dei casi sommando le altre prestazioni previste per legge, si può arriva a percepire circa 1.000 euro al mese. Ma si tratta della migliore delle possibilità, altrimenti le cifre sono più basse» denuncia Ilaria Vacca.
È chiaro che non può essere sufficiente, neanche con un affitto di casa calmierato, perché in quella somma sono inclusi spesa alimentare, cure e medicine, o ausili non sempre coperti dai LEA, i livelli essenziali di assistenza.
Il caso simbolo di Claudia
È quanto accade a Claudia, 35 anni, di Padova. Si trova su una sedia a rotelle a causa di una malattia da cui è affetta, la Agenesia Sacrale e Sindrome da Regressione Caudale, che la rende invalida al 100% nell’uso delle gambe, ma non ha alcun deficit cognitivo. «Ora io mi ritrovo a dover fare una scelta personale e professionale, e a fare ancora i conti con i limiti creati dalla mia disabilità. Voglio poter lavorare, riuscendo a coprire ciò che mi serve per poter avere una vita dignitosa, ma voglio anche essere libera di scegliere per me: sono stanca che gli altri facciano scelte al posto mio».
Claudia vive in una casa in affitto, resa disponibile dal Comune, è autonoma, ma monoreddito. Ha due lauree, ma trovare un lavoro che le permetta di rinunciare all’assegno di invalidità non è facile. In passato ha lavorato alla biglietteria di un cinema, in un call center e in un ufficio. Insomma, non è esattamente una donna che attende un sussidio dallo Stato. «La società parla molto di inclusione teorica, ma poco in termini pratici. Siamo sinceri: per noi è difficile avere una vita autonoma e trovare un lavoro che ci permetta di mantenerci completamente. Io sono addetta al customer care in un ufficio, ma collaboro anche con una web radio e con l’OMaR, e ho fondato una mia associazione – ci racconta Claudia – Questo è il mio modo per essere inclusa, ma le spese sono tante e l’assegno di invalidità da solo non basta. Oltretutto noi con disabilità non possiamo fare qualsiasi lavoro: io non posso, ad esempio, guidare un camion o un autobus, né posso fare la barista perché sulla carrozzina scomparirei dietro al bancone. Quindi abbiamo comunque bisogno di un aiuto: non nascondiamolo, io non mi vergogno di dirlo».
Nel bilancio, inoltre, pesano spesso anche alcuni ausili: «Non tutti sono passati dal Servizio sanitario nazionale o non del tutto, e si ha anche bisogno di assistenza, che va pagata. Insomma, quell’assegno non ci cambiava la vita, ma ci dava una grossa mano» aggiunge Claudia.
Una legge troppo vecchia
L’Osservatorio Malattie Rare punta il dito anche sulla norma che regola la materia: «La Legge 118/1971 per troppi aspetti non è più attuale, tanto nel lessico quanto nel contenuto. «Intanto ha un linguaggio che è molto datato, frutto dei tempi nei quali è stata concepita. Ad esempio, si parla di “minorazioni congenite acquisite, irregolari psichici, oligofrenie, difetti sensoriali e sfunzionali”: insomma, non risponde al concetto di salute così come è stato espresso recentemente dall’Oms. Un tempo si parlava di handicap, oggi di strumenti per superare le barriere della disabilità. Forse all’epoca si trattava comunque di una legge importante, ma oggi si può fare di più» conclude Ilaria Vacca.