Tanto più adesso che Tito Boeri, il presidente dell’Inps, chiede una riforma organica del sistema previdenziale per consentire una maggiore flessibilità a chi vuole andare in pensione prima. Il governo nella Legge di stabilità ha prorogato la cosiddetta “Opzione donna”: le lavoratrici possono lasciare il lavoro a 57 anni con 35 anni di contributi, prendendo un po’ meno. Per Boeri non basta. Ma se tutto rimanesse com’è, su che tipo di pensione potremo contare? E quando arriverà?
SCEGLIERÒ TRA PENSIONE DI VECCHIAIA O DI ANZIANITÀ? Non è una “scelta”. La pensione di vecchiaia può essere corrisposta quando raggiungiamo almeno 20 anni di contributi e una certa età: nel 2016 sarà 65 anni e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti e 66 anni e 1 mese per le autonome. Per la pensione di anzianità, invece, servono un certo numero di anni di lavoro: chi ci andrà nel 2016 dovrà avere 41 anni e 10 mesi di contributi. Ma non durerà così a lungo…
DOVRÒ LAVORARE ANCORA MOLTO? Dal 2019 l’età pensionabile verrà aggiornata ogni 2 anni sulla base dell’aspettativa di vita media. Il sistema previdenziale, per non collassare, deve tener conto del fatto che moriamo sempre più tardi e che facciamo meno figli. Perché sono i più giovani, con i loro contributi, che tengono in piedi tutto. Una lavoratrice di 40 anni, per andare in pensione di anzianità a 65, dovrebbe avere all’attivo almeno 44 anni e 2 mesi di contributi versati: così smetterà di lavorare nel 2040. Ma diciamocelo: chi, di questa generazione, a soli 21 anni aveva già un lavoro fisso e contributi regolari? Pochissimi.
QUANTO PRENDERÒ? L’Inps stesso fornisce, sul proprio sito www.inps.it, un sistema per calcolare la pensione ipotetica. Sono numeri indicativi, che non tengono conto di scatti di carriera o perdita del lavoro. Qualche esempio? Una dipendente di un’azienda privata di 40 anni, che abbia oggi 15 anni di contributi alle spalle e guadagni 1.500 euro netti al mese, andrà in pensione nel 2042, tra 27 anni, più o meno con la stessa cifra. Una lavoratrice autonoma sua coetanea con uno stipendio maggiore, diciamo 2.000 euro al mese, ma con 10 anni di contributi, prenderà un assegno di 1.900. Peccato che nel frattempo il costo della vita sarà aumentato notevolmente: ricordi quanto costava un caffè 27 anni fa? Era il 1988 e al bar si pagavano 700 lire, pari a 36 centesimi di euro. Bisogna valutare un’integrazione.
CONVIENE FARE UN PIANO INTEGRATIVO? Sì, conviene pensarci subito, anche se la data di fine lavoro sembra molto lontana. Ci sono i fondi pensione chiusi, ossia negoziati tra lavoratori e singole aziende o aziende di un settore (metalmeccanici, chimici, piloti): una quota la versa il dipendente, un’altra il datore di lavoro e vi si può destinare anche il Tfr. Ci sono i fondi pensione aperti, creati da banche, assicurazioni e società finanziarie ai quali chiunque può aderire. Infine ci sono i Piani individuali previdenziali (Pip), offerti generalmente dalle compagnie assicurative. Soprattutto per questi, consiglio di confrontare i costi delle diverse opzioni: chi propone un prodotto ha il dovere di chiarire ogni dubbio, non ti sta elargendo un dono. Alla fin fine, in gioco c’è una vecchiaia serena.