«Quando ho consegnato la lettera di dimissioni al mio capo ho visto anni di sacrifici andati in fumo: l’università pagata facendo la cameriera, le notti sui libri, gli stage, l’ansia per il colloquio di assunzione e le prime, emozionanti, gratificazioni in ufficio. Tutto dissolto in un istante: mi sono sentita una perdente». Marika, 37enne napoletana, è una delle 37.611 donne (contro 13.947 uomini) che nel 2019 hanno detto addio a stipendio, contributi e, perché no, possibilità di carriera. Un esercito, pacifico ma deluso, grande quanto una città di medie dimensioni come Nuoro. I numeri arrivano dal nuovo rapporto dell’Ispettorato del lavoro, che ogni anno fotografa il fenomeno e ne sottolinea l’aumento nel 2019 rispetto al 2018.
A far riflettere è la motivazione di tutte queste dimissioni: la difficoltà a conciliare vita privata e impiego nel momento in cui nasce un figlio. Ma chi sono queste donne? Quanti anni hanno e dove vivono? Non c’è modo di evitare che siano costrette a scegliere tra famiglia e lavoro?
«Ho messo da parte me stessa per far quadrare i conti»
Nel 2018 avevano lasciato il proprio posto 35.963 donne. Se, a distanza di 1 anno, l’aumento non sembra elevatissimo, il dato assoluto lascia senza parole se si guarda alle 17.175 del 2011. «E dire che a gennaio 2020 abbiamo festeggiato i dati Istat sull’occupazione femminile, con 35.000 posti in più rispetto all’ottobre del 2019» nota Barbara Poggio, sociologa del lavoro e prorettrice alle Politiche di equità e diversità all’università di Trento. «Significa che troviamo un contratto, conquistiamo promozioni, ma poi dobbiamo gettare la spugna quando diventiamo mamme. Questo fenomeno non è una novità, ma sta assumendo dimensioni preoccupanti. Anche perché, nel 60% dei casi, le dimissioni vengono date dopo la nascita del primo figlio; prima ci si licenziava al secondo bambino, quando le cose erano in effetti più difficili da far quadrare, ora siamo costrette a mollare subito».
Chi si licenzia ha in media fra i 34 e i 44 anni, una bassa anzianità professionale e vive al Nord. A guidare la poco lusinghiera classifica, con 11.105 dimissioni, sono infatti le mamme lombarde. «C’è anche una ragione numerica: al Nord ci sono più lavoratrici, con il tasso di occupazione in media al 60%, in linea con l’Europa» precisa la professoressa Poggio «mentre al Sud ha un contratto solo una donna su 3». Anzi, qui le ragazze sono spesso costrette a partire per costruirsi un futuro, solo che poi, una volta trasferitesi in un’altra città, si ritrovano senza l’aiuto dei nonni o della rete familiare.
Come è successo a Marika. «Sono arrivata a Milano per studiare: laurea “sicura” in Economia, poi un posto in un’azienda di revisione conti. Ero soddisfatta e mi è sembrato naturale coronare l’altro mio sogno: avere un figlio» racconta mentre Pietro, 2 anni, fa il riposino pomeridiano. «Tutto è crollato quando lui non è entrato al nido comunale e abbiamo ripiegato su una tata. Anzi, su più baby sitter che periodicamente ci abbandonavano. Stremati, ci siamo rivolti a un’agenzia di reclutamento per nanny: erano perfette, peccato avessero una paga d’oro. Abbiamo resistito 1 anno, sperando che accettassero Pietro al nido privato. Che, però, nel frattempo ha chiuso. Così mio marito e io ci siamo trovati una sera, calcolatrice alla mano, a cercare di far quadrare i conti che non tornavano più. Il suo stipendio è più alto del mio, quindi per ora ho messo da parte il lavoro. E me stessa».
«Sono una over 40 che chiede un impiego flessibile: chi mai mi assumerebbe?»
Il gender pay gap è una delle ragioni delle dimissioni dello neomamme. Secondo l’Eige, Istituto europeo per l’eguaglianza di genere, in Italia la differenza del reddito medio mensile tra uomo e donna è del 18%. «Servono subito una mappatura davvero veritiera di questo divario e una legge efficace, che obblighi le aziende a colmarlo» commenta Barbara Poggio. «Anche perché nei prossimi mesi, a causa della crisi legata alla pandemia, l’occupazione femminile rischia di rimetterci ancora di più. I dati Istat di aprile hanno già evidenziato un calo del 2,9%. Saranno penalizzati i settori del terziario, per esempio turismo e negozi, dove lavorano tante donne. E cosa succederà se le scuole dovessero chiudere ancora per una recrudescenza dei contagi? Il carico familiare ricadrà sulle mamme e probabilmente il numero delle dimissioni salirà».
L’altro grande ostacolo sono i servizi carenti. Nelle città più grandi gli asili rimangono un miraggio, così come ludoteche o iniziative a prezzi calmierati. Serena, 41enne operaia romana, era diventata una specie di Sherlock Holmes a caccia delle migliori. «Con il primo figlio, che ora ha 7 anni, ci ha salvato un miracoloso incastro tra nidi e nonna. Poi, dopo la nascita del secondo, mia mamma si è ammalata. Ho provato di tutto: congedi, aiuti delle amiche, tate a chiamata. Intanto il grande cresceva e aumentava il carico di impegni. La coperta era sempre troppo corta e io rischiavo di strozzarmici. Ho chiesto il part-time, ma l’azienda me l’ha rifiutato. In realtà è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso: da mesi mi sentivo ai margini, il mio responsabile mi rimproverava le assenze legate al mio “essere mamma” davanti a tutti. Ora sono in panchina e temo di restarci a lungo: chi vuole una over 40 che chiede un impiego flessibile?».
Il part-time spesso si rivela un boomerang per la carriera e la pensione. Lo smart working può essere una soluzione, ma servono regole chiare
«Il vecchio part-time è uno strumento pericoloso, perché si è dimostrato che impedisce di fare carriera e, in un sistema come il nostro basato sui contributi, diventa anche un boomerang ai fini della pensione» precisa la professoressa Poggio.
E lo smart working di cui tanto si parla? «Occorre intervenire davvero sulla flessibilità: istituzioni e sindacati devono farlo diventare realtà anche passata l’emergenza, approfittando del periodo storico particolare che può fare da volano» nota Poggio. «Bisogna mettere nero su bianco regole chiare per le varie categorie. Vanno migliorati anche i congedi parentali, e non solo aumentando i giorni. A causa della crisi Covid, ora è prevista un’indennità pari al 50% della retribuzione giornaliera, ma di solito è al 30%: utilizzarli è poco conveniente. Questo è un Paese in cui si parla molto di famiglia, ma si fa poco: non c’è più tempo da perdere».
Anche per il bene dell’economia italiana: è dimostrato che, se aumenta l’occupazione femminile, cresce il Pil.
I NUMERI PER CAPIRE
73% i casi in cui a lasciare l’impiego dopo la nascita dei figli è la madre
9 su 10 le dimissionarie che fanno le operaie o le impiegate, soprattutto nel settore terziario
21% le richieste di part-time che vengono accolte
33.442 le neomamme che si sono dimesse nel Nord Italia nel 2019
15.505 le dimissioni motivate da “assenza di supporto”
(fonte: Ispettorato del lavoro, Rapporto 2019)
Cosa prevede il Family Act ora in Parlamento
È iniziato il 16 luglio l’iter di approvazione in Parlamento del Family Act, il disegno di legge voluto dalla ministra per le Pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti (che assicura che i provvedimenti saranno realtà entro la fine dell’anno). In attesa dei decreti attuativi previsti in autunno, ecco alcune delle misure previste.
● L’assegno universale per i figli: verrà corrisposto mensilmente dal settimo mese di gravidanza ai 18 anni di ciascun figlio. Avrà un importo minimo per tutti i nuclei, cui verrà aggiunta una quota variabile a seconda dell’Isee.
● I contributi per le rette di nidi e materne anche fino al 100%.
● Il prolungamento del congedo di paternità obbligatorio (da 7 a 10 giorni), a prescindere dallo stato civile e di famiglia.
● Un’indennità integrativa sullo stipendio, erogata dall’Inps, per le lavoratrici che rientrano dopo la maternità obbligatoria.