E se il Jobs Act avesse fatto bene ai vecchi più che ai giovani? Gli ultimi dati Istat sull’occupazione sono sorprendenti: in 1 anno, tra dicembre 2015 e dicembre 2016, ci sono stati ben 410.000 lavoratori attivi in più. Con un piccolo particolare: erano tutti over 50. Mentre gli occupati nella fascia 15-49 anni sono diminuiti di 168.000 unità.
Molti hanno identificato tra le cause di questo boom il Jobs Act, che consentirebbe di liberarsi con meno difficoltà dei dipendenti più giovani. «In realtà, la riforma del lavoro c’entra poco. E andiamoci piano anche a tirare in ballo lo scontro generazionale fra padri e figli» dice Emilio Reyneri, sociologo del Lavoro all’università Bicocca di Milano. In ogni caso, gli ultracinquantenni sono tornati di colpo al centro dell’attenzione delle imprese. Vediamo perché.
La riforma Fornero ha alzato l’età pensionabile
Il primo motivo è demografico. La popolazione invecchia progressivamente e l’età media delle persone occupate si sposta sempre più in avanti: era di 38 anni nel 1991, oggi è di 44. Inoltre, è determinante l’entrata a regime della riforma Fornero, che ha alzato la soglia media del ritiro dal lavoro a quasi 67 anni. Così, se nel 2015 sono andate in pensione 570.000 persone, nel 2016 sono state 443.000. «C’è un nutrito blocco di lavoratori che ha conservato il posto, mentre seguendo le dinamiche del passato sarebbe stato mandato a casa» spiega il sociologo.
Ma c’è dell’altro. Tanti sono gli over 50 riassorbiti dal mercato dopo essere rimasti a spasso durante la crisi: merito di alcuni sgravi contributivi decisi dal governo per le assunzioni dei senior, ma anche di un cambiamento culturale che avanza. «Una volta, nelle imprese, si badava a far scivolare i lavoratori più maturi verso la pensione, il prima possibile e senza troppi traumi, per risparmiare e aumentare la produttività» ammette Fabio Costantini, responsabile della società di consulenza Randstad HR Solutions, che da 3 anni studia il fenomeno. «Oggi invece un 50enne ha davanti a sé altri 15 o 16 anni di carriera. Quindi vale la pena investirvi, anche perché spesso dà risultati migliori di un giovane ed è più fedele all’azienda».
Molti over 50 sono tecnici specializzati nell’industria, ormai merce rara. Oppure occupano posizioni dirigenziali medio-alte, come nel controllo di gestione. «Durante i colloqui hanno uno shock iniziale, quando devono digerire la proposta del contratto a termine o a tutele crescenti, perché non sono abituati. Ma poi il loro inserimento è un successo: sanno calibrare le aspettative e avendo vissuto la disoccupazione sono flessibili. Mentre tanti giovani, benché preparati, si abbattono o calano di rendimento se la mansione non corrisponde al loro desiderio».
I dipendenti senior fanno da mentori
Sono poche, tuttavia, le imprese che coinvolgono gli over 50 nella formazione. «E solo quelle più grandi. Le piccole, che sono la stragrande maggioranza in Italia, non possono permettersi di togliere ore di lavoro a favore dell’aggiornamento necessario per chi non è più giovane» precisa Reyneri. Eppure i casi virtuosi crescono. Qualche multinazionale della tecnologia, da Abb a Ibm, pratica il “reverse mentoring”: momenti di formazione in cui giovani e vecchi si scambiano le competenze. I primi insegnano il mondo social, i secondi la strategia aziendale. Altrove nascono le “quote argento”, cioè l’abitudine di riservare ogni anno un numero minimo di assunzioni per gli over 50. Lo fanno, per esempio, alla StMicroelectronics. «E non è una forma di beneficenza: le imprese si sono accorte che il giusto mix di giovani e anziani le rende più dinamiche» osserva l’esperto.
Manca il collegamento tra scuola e impresa
Certo, qualche dubbio resta. Se viene dato ancora più spazio agli anziani, come possiamo ridurre la disoccupazione giovanile? «In realtà, è sbagliato pensare che oggi i padri tolgano il posto ai figli» ragiona il sociologo. «Può valere nel settore pubblico, dove il blocco del turnover, che non permette di rimpiazzare i pensionati con nuovi assunti, ha creato un tappo. Ma gli occupati statali sono solo 3 milioni su un totale di 23». Il vero scoglio sta in un corto circuito tutto italiano. «Creiamo pochi posti che corrispondono ai percorsi più battuti nelle università» prosegue il sociologo. «Servirebbero da un lato investimenti in ricerca e in opere di ingegneria avanzata come la riqualificazione idrogeologica, che ha un potenziale immenso, e dall’altro la creazione di collegamenti più agevoli con il mondo delle università. Ma è un cambio di indirizzo che il mercato non può operare senza una regia politica».
Eppure sembra che le imprese fatichino non poco a trovare i profili che cercano. «Incontriamo tanti diplomati, per esempio in informatica, che però non sanno nulla di concreto dei mestieri di oggi» aggiunge Costantini di Randstad. «Dicono genericamente di voler lavorare nel web. Ma poi rispondono agli annunci sbagliati, magari un sistemista si presenta dove serve un social media manager. Questo accade perché loro non si informano, ma anche perché il mondo dell’istruzione non li aiuta a tracciare un percorso». E si torna al famigerato scollamento tra formazione e impresa. Il governo, lo scorso novembre, ha promesso di stanziare 100 milioni di euro per progetti di alternanza scuola-lavoro. C’è da sperare siano spesi presto e bene.