Dopo la Camera, anche il Senato ha approvato all’unanimità la proposta di legge sulla parità di stipendio tra donne e uomini. Due esperte ci spiegano qui perché questa norma è importante. Partendo da una premessa: il mercato del lavoro per noi è particolarmente scivoloso. Fatichiamo a entrarci (lavora meno di 1 donna su 2), ne usciamo velocemente quando diventiamo madri ma, dopo, difficilmente rientriamo. E anche chi ha un impiego di solito percepisce una busta paga più leggera di quella dei colleghi.
Da dove nasce la disuguaglianza di genere nei salari
«I contratti di lavoro non prevedono disparità di genere nei salari» chiarisce Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat e a capo di W20, (Women 20), il gruppo di esperte che elabora proposte sull’uguaglianza di genere ai leader dei Paesi del G20 che si riuniscono a Roma a fine mese. «Nel percorso professionale le donne però incontrano vari ostacoli, più o meno subdoli, che le portano ad avere una pensione fino al 40% inferiore». Questi ostacoli sono già all’ingresso: «Le donne iniziano a lavorare più tardi perché molte hanno una formazione umanistica: sul mercato ci sono meno posti in quelle discipline e sono posti di solito poco remunerativi».
Ma come non ci basta essere più brave a scuola per essere assunte, così non ci basterebbe avere tutte in tasca una laurea Stem (cioè in materie tecnico-scientifiche) per essere pagate quanto i maschi. Come rileva l’Ossservatorio sui Conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, a 5 anni dalla laurea il divario di stipendio tra uomini e donne in generale sfiora i 300 euro. Se guardiamo alle Stem è comunque elevato: da Medicina con un gap di 100 euro fino all’Ict (Information and Communication Technology), dove la differenza retributiva arriva a 250 euro. «Un’altra scure sullo stipendio è quella del part time: lo scelgono soprattutto le donne per dedicarsi ai figli o ai genitori anziani. Queste attività di cura le portano ad avere meno potere contrattuale: le dipendenti al datore di lavoro chiedono flessibilità anziché aumenti di stipendio o migliori qualifiche».
Cosa prevede la legge appena approvata
La legge appena approvata dal Parlamento impone nuovi obblighi alle aziende: quelle con almeno 50 dipendenti devono redigere un rapporto sulla situazione del loro personale in merito a salari, reclutamento, posizioni e opportunità di carriera.
Viene anche introdotta la Certificazione della parità di genere, un attestato che dovrà valutare le misure adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario. «Lo scopo è spingere le aziende alla trasparenza e alla condivisione dei dati per poter poi promuovere azioni mirate» commenta Paola Profeta, professoressa di Economia delle finanze e direttrice di AXA Research Lab on Gender Equality dell’università Bocconi di Milano e autrice di Parità di genere e politiche pubbliche. Misurare il progresso in Europa (Bocconi editore – Egea).
A chi ispirarci: l’Islanda
«Il Paese con la legislazione più avanzata in questo campo è l’Islanda che da anni ha introdotto anche la Certificazione della parità di genere e i risultati sono tangibili: svetta al top della classifica sul gender gap elaborata dal World Economic Forum» spiega Paola Profeta.
Di strada da fare ne abbiamo ancora tanta. «Una legge non può bastare a correggere differenze salariali così profonde come quelle che si registrano in Italia» dice Linda Laura Sabbadini. «Ma può dare una spinta a un circolo virtuoso. Certo, poi devono prevedersi strutture come gli asili per permettere alle famiglie di avere figli ed entrambi i genitori al lavoro. E serve una grande operazione sul piano culturale, dove si annidano saldamente ancora troppi pregiudizi che penalizzano le donne e le loro opportunità di carriera».