«La cosa che più mi amareggia è vedere che la qualità del nostro lavoro non conta nulla. Negli ultimi anni sono state licenziate molte colleghe: ora, per arrivare fino all’età della pensione, devono vendere la casa». Maria Luisa, 50 anni, è addetta in un calzificio: un impiego ancora ce l’ha, ma la paura per il futuro è tanta. Quando 32 anni fa si è trasferita a Castel Goffredo, in provincia di Mantova, l’industria delle calze era fiorentissima. «Ma negli ultimi 10 anni il numero delle imprese è sceso da 338 a 189 ed è sparito quasi un posto di lavoro su 2: da 10.463 a 6.321» spiega Michele Orezzi, segretario generale della Filctem Cgil di Mantova. «È come se ogni giorno ci fossero stati 1,5 licenziamenti. E dato che a lavorare nel settore sono quasi solo donne, è ovvio chi ha pagato il prezzo della crisi».

Sono cambiate le mode e i consumi

In questa zona della Lombardia, dove dagli anni ’50 in poi si è affermato il cosiddetto “distretto della calza”, tuttora viene prodotto il 90% delle calze vendute in Italia. Eppure migliaia di operaie sono state lasciate a casa: inutili, come calzini spaiati. «Spesso queste lavoratrici hanno svolto sempre la stessa mansione, hanno un basso tasso di scolarità e non possiedono la patente: difficile che riescano a riadattare la propria professionalità sul mercato locale» chiarisce Orezzi.

DISTRETTO IN CRISICastel Goffredo (dove sono state scattate le foto di queste pagine, nel calzificio

DISTRETTO IN CRISI
Castel Goffredo (dove sono state scattate le foto di queste pagine, nel calzificio BC) e Castiglione delle Stiviere sono le cittadine più famose del distretto delle calze mantovano.

La crisi del comparto è evidente nei numeri raccolti da un dossier elaborato dal Cresi, Centro di ricerca per lo sviluppo imprenditoriale dell’università Cattolica di Milano. «Chiusure, licenziamenti e cassa integrazione sono le conseguenze di un mutamento nella produzione e nei consumi legato a più fattori» spiega il curatore dell’indagine, il professor Fabio Antoldi. «Innanzitutto la concorrenza di aziende dell’Europa dell’Est, dove sono stati gli stessi imprenditori italiani a delocalizzare. Poi l’aumento delle temperature, che ha portato molte donne a non indossare più le calze sotto i pantaloni. Infine le tendenze della moda, che hanno determinato un calo del 60% nelle vendite di collant velati, quelli sotto i 60 denari, che un tempo rappresentavano il grosso del mercato».

L’effetto è un vero e proprio terremoto. «Un tempo le calze erano un indispensabile capo quotidiano, ora sono un accessorio» nota Orezzi. «Nella produzione, invece dei classici collant che si trovavano in qualsiasi merceria sotto casa, oggi la parte del leone la fanno i modelli con lavorazioni più complesse, che richiedono investimenti in innovazione impossibili per le piccole aziende. Quanto alla distribuzione, i calzifici tradizionali devono anche fare i conti con i “big” che hanno costruito una rete di negozi brandizzati e investono in pubblicità. Ovvio che tanti finiscano schiacciati. A meno che, come fanno parecchi, si ricorra al “caporalato artigiano”: ovvero, affidare il lavoro a laboratori cinesi – che in 10 anni nella zona sono saliti da 228 a 256 – preferendo dipendenti senza diritti e spesso clandestini a donne qualificate. In questo modo un imprenditore magari sopravvive, ma uccide le famiglie e l’economia di un intero territorio».

Occorre puntare su qualità e sostenibilità

«Il distretto è diviso fra aziende che non hanno modificato il modo di operare di fronte ai cambiamenti epocali del mercato, rimanendo schiacciate, e imprese che invece hanno saputo innovare, e quindi resistere» riassume Alessandro Gallesi, presidente di A.DI.CI, Associazione Distretto Calza e Intimo di Castiglione delle Stiviere (Mn). Quanti, per esempio, hanno puntato sulla tecnologia “seamless”, una lavorazione tubolare senza cuciture, hanno ampliato la gamma di prodotti al settore medicale (con i collant a compressione graduata) o a quello tecnico-sportivo (con leggings e maglie tecniche)

Una delle possibilità di rinascita del settore sta infatti nella sostenibilità, dato che i collant sono fatti di fibre artificiali, che rilasciano microplastiche: «Noi possiamo rendere ecologico il processo di produzione, ma la materia prima va ripensata da parte delle industrie chimiche» aggiunge Gorgaini. Per ripartire serve anche un altro elemento: «La fiducia tra gli imprenditori locali, con nuove forme di collaborazione» dice il professor Fabio Antoldi. «Finora ha sempre dominato l’individualismo, forse per la cultura rurale tipica del territorio. Adesso abbiamo creato tavoli di lavoro a livello locale per affrontare insieme i problemi e sfruttare le competenze. Per esempio, si può pensare di “integrare” le calze medicali con sensori per misurare i parametri vitali. Servono contatti con le università per fare innovazione e fundraising per aiutare chi non può investire».

E poi, forse, qualcosa possono fare anche le donne, quelle che le calze le comprano e indossano. «Occorre rendere trasparente la filiera ed educare il consumatore a riconoscere il livello del prodotto: servirebbe un marchio di qualità» suggerisce il sindacalista Michele Orezzi. Aggiunge Maria Luisa: «Collant che fanno pieghe orizzontali sotto le ginocchia, che hanno il tassellino che tira, cuciture scomode sul piede o in vita, non escono dalle nostre fabbriche. Una calza made in Italy non costa meno di 3 euro e addosso “non si sente”. Perché dietro un prodotto di qualità, ci siamo noi: persone attente, che amano il loro lavoro e vorrebbero conservarlo».

Foto di Marco Vacca