Le lavoratrici potranno continuare a lasciare il proprio impiego in anticipo sull’età pensionabile anche nel 2023, ma la platea si potrebbe restringere. Non solo: tra le ipotesi in campo, ed esempio, c’è l’estensione della pensione anticipata a 58 /59 anni per tutte le lavoratrici con 35 anni di contributi. Il problema sono da un lato la penalizzazione che Opzione Donna prevede (un taglio di circa il 30%), ma anche la copertura finanziaria per allargare la platea delle lavoratrici che possono accedere alla misura.
Nasce il tavolo di confronto: gli obiettivi
Il 14 febbraio si è tenuto il primo incontro del nuovo tavolo di confronto tra Governo e Sindacati per arrivare a una modifica di Opzione Donna. In concreto si discute della possibilità di un riconoscimento di uno sconto di 4 mesi per figlio sull’età anagrafica per accedere alla pensione di vecchiaia, fino a un massimo di 12 mesi. Vorrebbe dire che chi ha almeno 3 figli e non ha contributi versati prima del 1996, oppure chi li ha ma ha optato per il computo in Gestione separata, può andare in pensione a 66 anni anziché 67. Questo grazie all’eventuale estensione di quanto già previsto dalla legge Dini per le sole donne che rientrano interamente nel sistema contributivo. Questa agevolazione potrebbe essere applicata anche a chi rientra nel calcolo misto della pensione, vale a dire chi alla data del 31 dicembre 1995 aveva già dei contributi versati. Il tutto potrebbe diventare realtà solo se le coperture finanziarie fossero sufficienti, un aspetto sul quale il sottosegretario al Lavoro, Durigon, ha detto che sono in corso valutazioni.
Al momento, dunque, resta l’impegno della Ministra titolare del dicastero, Calderone, a introdurre correttivi che possano favorire coloro che sono state penalizzate dal cambio di requisiti effettuato con la legge di Bilancio 2023.
Opzione donna: cosa cambia dal 2023
La novità più importante prevista dalla legge di Bilancio, infatti, è anche la più dibattuta e riguarda l’età anagrafica necessaria per accedere a Opzione donna, salita a 60 anni. Eccezioni sono previste per chi ha un figlio e che dunque potrà andare in pensione anticipatamente a 59 anni, o più di due (58 anni). Occorre, però, anche avere raggiunto 35 anni di contributi insieme ad altre condizioni: il beneficio è riconosciuto solo alle donne che hanno invalidità civile pari almeno al 74% o che assistono parenti portatori di handicap, oppure ancora che siano dipendente o licenziate da aziende in stato di crisi. Solo in quest’ultimo caso, la riduzione a 58 anni è automatica. La platea potenziale è dunque ristretta a circa 2.900 lavoratrici.
Cosa chiedono i sindacati
La ministra Calderone ha chiarito che intendere chiudere il confronto entro giugno 2023. I sindacati, però, hanno richieste precise. Le opzioni possibili vanno dall’ipotesi massima di ritornare alla versione precedente della misura, in vigore fino al 31 dicembre 2022, a quella di un intervenire circoscritto ad alcuni requisiti. I sindacati vorrebbero appunto tornare alla versione pre-Manovra, con l’età di uscita per le donne a 58 anni se dipendenti e 59 anni se autonome e con 35 anni di contributi
I requisiti precedenti per fare domanda
In particolare, come previsto dall’Inps, Opzione donna nel 2022 consentiva l’uscita anticipata con il calcolo contributivo per le lavoratrici dipendenti con almeno 58 anni di età (59 le autonome) e 35 di contributi. Occorreva quindi un requisito anagrafico, ossia essere nate nel 1963 (nel 1962 le autonome) in modo che nel 2021 siano stati raggiunti i 58 anni di età, oltre ai 35 anni di contributi.
Quando si riceve la pensione
Se al 31 dicembre 2021 erano maturati i requisiti, era possibile fare la domanda e l’assegno di pensione poteva essere riscosso a partire da 12 mesi dalla «data di maturazione dei previsti requisiti» se si trattava di lavoratrici dipendenti, «sa partire da 18 mesi se invece il trattamento sia liquidato a carico delle gestioni previdenziali dei lavoratori autonomi».
«Questo accade perché devono sempre passare 12 mesi (o 18 per le autonome) prima di poter ricevere il primo assegno pensionistico, che scatterà dal mese successivo. Per esempio, se i requisiti sono stati maturati a settembre del 2021, si inizierà a ricevere l’assegno dal 1° ottobre 2022, se lavoratrice dipendente, oppure dal 1° aprile 2022 se autonoma» ci spiegava Anna Bilato, responsabile di Opzione donna per l’INCA, il patronato della Cgil.
Chi ci guadagna e chi ci rimette
Nella decisione se accedere all’Opzione donna pesa sempre la decurtazione di parte della pensione, in cambio dell’anticipo con il quale si può lasciare il lavoro. In pratica, chi decide di andare in pensione prima deve mettere in conto di perdere fra il 20 e il 30% dell’assegno pensionistico che maturerebbe se andasse in pensione attendendo l’età prevista, che attualmente è di 67 anni.
«Premesso che ogni caso è a sé – spiegava l’esperta – c’è un principio generale: minore è l’anzianità retributiva al 31 dicembre 1995, minore sarà l’impatto di Opzione donna rispetto a quello che sarebbe l’assegno pensionistico “regolare”. Viceversa, maggiore è la quota contributiva al 31 dicembre più il taglio sulla pensione peserà». Questo significa in pratica che a rimetterci maggiormente sono le donne che dovessero optare per questa soluzione, avendo iniziato a lavorare prima, quindi presumibilmente le meno giovani, che hanno potuto contare su un sistema retributivo per un maggior numero di anni.
Una platea ridotta di beneficiarie
Questo svantaggio è apparso non da poco per molte. Tant’è che nel 2019 e nel 2020 hanno sfruttato Opzione donna solo in 33mila (21mila nel primo anno di attivazione, circa 13mila in quello successivo).
«Andrebbe fatta, però, una simulazione specifica e individuale, anche perché si tratta di una scelta irreversibile, quindi si deve essere consapevoli» conclude l’esperta del patronato Cgil.