Qualcosa si muove sulla strada della parità, quantomeno sul tema spinoso dei salari. Con il via libera (all’unanimità) da parte della Camera, la legge passa ora al Senato, dove ci si aspetta un’altra approvazione senza ritardi.
Ma perché tanta fatica per arrivare a ridurre (o cancellare?) il famigerato Gender gap?
«La domanda è normale e mi fa venire in mente un film molto famoso, I want Sex, che racconta delle proteste delle operaie inglesi nel 1968, che scioperarono e scesero in piazza fino a quando incontrarono l’allora premier Margaret Thatcher. Ecco, penso che noi in fondo siamo ancora a rivendicare quello stesso diritto: stiamo cercando di avere una parità di salario o almeno meno disparità» commenta Riccarda Zezza, già autrice di Maam. La maternità è un master, CEO di Lifeed. È tra le 40 imprenditrici sociali che guidano l’innovazione di genere nel mondo e la sua è una visione di insieme che mostra pregi e limiti della nuova legge.
Parità salariale: cosa cambierà
La legge sulla parità salariale, approvata all’unanimità con 393 voti favorevoli, porta la firma di Chiara Gribaudo (Pd) e prevede modifiche al Codice sulle pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo. In pratica mira a ridurre il “gender pay gap”, cioè le differenze nelle retribuzioni tra uomini e donne. Nel testo è previsto che anche le aziende più piccole, con più di 50 dipendenti (oggi la norma è valida solo per le grandi con oltre 100 lavoratori) stilino un rapporto sulla situazione del lavoro, che siano introdotti nuovi strumenti per conciliare lavoro e vita privata e, dal 1° gennaio 2022, che sia introdotta una certificazione della parità di genere: si tratta di un attestato che valuterà i provvedimenti dei datori di lavoro per ridurre il divario di genere, prendendo in considerazione salario, ma anche possibilità di carriera. Non da ultimo istituisce un premio per le aziende più meritevoli. «L’aspetto più importante è forse l’introduzione di strumenti di controllo, che permettono di monitorare la situazione. La legge è positiva perché tiene alta l’attenzione su un tema importante, ma non basta, per diversi motivi» spiega Zezza.
Servono azioni concrete
«Intanto speriamo che la legge passi anche al Senato e non si areni, ma soprattutto che non rimanga lettera morta. È un bene, ma solo un primo passo perché il problema è culturale: c’era bisogno di introdurre misure di controllo? Purtroppo sì, esattamente come per le quote rosa, che di per sé non sono la soluzione migliore e non sono sufficienti, ma rimangono necessarie» spiega Zezza. «Poi, però, la legge dovrà anche essere supportata da altri interventi, come per esempio quelli a sostegno dell’imprenditoria femminile. Il recente finanziamento per le aziende guidate da donne, infatti, si traduce in spiccioli».
Cosa manca davvero?
Cosa fare, dunque, cosa servirebbe ancora? «Credo che non discriminare sia fondamentale, ma occorre anche una visione d’insieme, perché non si tratta solo della remunerazione per il lavoro che svolge una donna: occorrono interventi riguardo i congedi di maternità e paternità, la condivisione dei carichi in famiglia, i servizi e un ripensamento della scuola tenendo conto che ormai la maggior parte dei bambini e ragazzi ha entrambi i genitori che lavorano, ecc. Insomma, non si deve pensare che queste leggi riguardino solo le donne, perché interessano tutto il Paese» spiega l’imprenditrice.
Il rischio di provvedimenti “per moda”
Ma come funziona all’estero: esistono leggi specifiche per stabilire che uomini e donne siano retribuiti in modo uguale? «Dipende molto dalle realtà. In alcuni Paesi nordici ce ne sono, ma talvolta mancano per il semplice motivo che non ce n’è bisogno, laddove c’è già una parità».
In Italia la differenza salariale, secondo i dati Eurostat, è pari al 12%: «Attenzione, però: la misurazione non corrisponde alla realtà in tutti i settori, perché dipende dal tipo di lavoro che si prende in esame» prosegue l’esperta. «Nel campo bancario assicurativo, ad esempio, arriva al 30%. In genere la disparità è maggiore in quelle professioni nelle quali c’è più potenziale di carriera, mentre si riduce in quelle più standardizzate, come il pubblico impiego, dove mansioni e retribuzioni sono più regolamentate. Insomma, non vorrei che si rischi di attuare provvedimenti solo “per moda”: lo si fa con il green, ma anche con il pink. Vale la pena, quindi, di essere contenti di questo primo risultato, ma senza abbassare la guardia» prosegue Zezza.