Ricchi e un po’ evasori? Oppure precari con redditi da fame, nonostante laurea e master? I lavoratori autonomi sono al centro del dibattito sulla manovra economica. «La politica li considera come un unicum indistinto, ma tra le partite Iva si mescolano mondi diversi, che andrebbero trattati separatamente» afferma Andrea Dili, docente universitario e presidente di Confprofessioni Lazio.
Mettersi in proprio può essere una scelta obbligata
L’Istat conta nel nostro Paese più di 5 milioni di autonomi: un record che corrisponde al 22% della forza lavoro, mentre la media Ue è al 14%. Un milione e mezzo sono piccoli imprenditori con almeno un dipendente; oltre 3 milioni sono autonomi “puri”, fanno tutto da soli. E in questo magma rientrano tantissime categorie: artigiani come l’idraulico e il tapparellista; professionisti legati agli ordini, dall’avvocato al veterinario; i freelance al cui interno ci sono anche nuove nicchie, come i rider delle app di consegna del cibo.
«Difficile analizzarli insieme» dice Anna Soru, presidente di Acta in rete, l’associazione italiana dei freelance. «L’apertura di nuove partite Iva per mestieri tradizionali, cioè negozianti e artigiani, è in calo in tutta Europa. Per alcuni, invece, dai consulenti informatici ai contabili, è una scelta obbligata, perché le grandi imprese hanno esternalizzato molte funzioni. Ma va ammesso che tanti apprezzano l’autonomia».
L’indipendenza porta alcuni vantaggi
«Io faccio parte della schiera dei soddisfatti» racconta Serena Puosi, 34 anni, di Viareggio, mamma di 2 bimbe di 1 e 3 anni. «Sono una social media manager, mi occupo di formazione nel campo dell’hospitality e curo un blog di turismo. Ero dipendente, con contratti a termine, ma nel 2015 il mio rapporto di lavoro è scaduto e nel frattempo sono rimasta incinta. Ho iniziato a lavorare a casa e oggi guadagno come prima, se non meglio. Una volta impiegavo 2 ore per andare in ufficio, ora invece alterno alla mia attività le faccende domestiche e spazio fra progetti diversi. Certo, non è tutto rose e fiori e sono fortunata: mio marito ha un lavoro stabile e i nonni ci aiutano nella gestione familiare. Ma non tornerei indietro».
La flat tax è utile soltanto per alcune categorie
Tra le misure che hanno sorriso agli autonomi c’è la flat tax. «Non è però vantaggiosa per tutti: premia chi ha costi fissi bassi, per esempio quei lavoratori “intellettuali” che usano solo un pc e un telefono. Chi invece affronta tante spese per i macchinari può anche perderci» puntualizza Dili di Confprofessioni.
Ma la norma, nata con buone intenzioni, ha accelerato un fenomeno già diffuso, quello delle finte partite Iva. «Una volta era un malcostume delle imprese, che risparmiavano trasformando il dipendente in una risorsa fissa, ma pagata a parcella. Oggi è sovente lo stesso lavoratore a richiederla, perché anche a lui conviene fiscalmente. Solo nel primo semestre 2019 sono state create 170.000 nuove partite Iva forfettarie» aggiunge Dili.
I giovani e le donne sono penalizzati
Tra i problemi ci sono le scarse tutele, anche se con il Jobs Act degli autonomi del 2017 le lavoratrici possono godere della maternità Inps senza più dover interrompere l’attività. Ma il grande spauracchio sono i compensi bassi. Stando al ministero dell’Economia, nel 2018 i titolari di partita Iva hanno dichiarato 43.510 euro a testa. Le medie, però, valgono poco.
Secondo un’indagine di Acta, i freelance che lavorano nella filiera dell’editoria libraria, come editor e traduttori, faticano a fatturare 15.000 euro l’anno. E soffrono, specie nel caso di donne e giovani, anche categorie all’apparenza “dorate”. Gli avvocati dichiarano al fisco in media 54.000 euro l’anno, con punte di 67.000 euro in Lombardia. Ma in Calabria si scende a 17.000, che crollano a 11.000 nel caso delle avvocatesse.
«Farsi strada è durissima» denuncia Roberta Imbimbo, civilista 41enne dell’associazione Aiga (Giovani avvocati napoletani). «Ho 2 bambini e lavoro senza aiutanti da 10 anni. Durante l’ultima gravidanza, a poche ore dal parto, stavo al telefono con un cliente pur di non perderlo. Ci sono colleghe in aula con il marsupio. Ma l’aspetto peggiore è il trattamento di giovani tirocinanti nei grandi studi. Accettano incarichi per 30 euro a pratica, una tariffa avvilente, lavorano al pari di dipendenti fino alle 10 di sera per 500 euro al mese».
Concorda Anna Soru: «Si chiami salario minimo o equo compenso, è urgente che la politica intervenga per introdurre tariffe accettabili. Alcuni ordini professionali hanno già parametri di riferimento, per altri vanno costruiti. Ma si può fare, in tanti Paesi già avviene. Altrimenti si alimenta un popolo di partite Iva deboli e sfruttate».