Il tema delle pensioni è in primo piano: si discute del futuro dopo che sarà scaduta Quota 100, a fine dicembre 2021. Le ipotesi sono diverse, da Quota 102 a quota 104, per poter passare gradualmente all’applicazione totale della riforma Fornero entro il 2024. Ma esiste un problema, che riguarda una larga fetta di donne e uomini: quelli che sono entrati nel mondo del lavoro dopo il 1996 e che, soprattutto, hanno avuto impieghi discontinui, quindi di fatto hanno versato meno contributi o in modo non regolare. Che ne sarà della loro pensione?
Chi sono i “Quota zero”
Sono detti anche “Senza quota” o “Fuori quota”, in pratica chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996, quando è entrata in vigore la riforma delle pensioni che ha modificato il sistema di calcolo, da retributivo (in base allo stipendio) a contributivo (al numero di anni di contribuzione e alla loro “consistenza”). «Sono quelli della generazione che ha iniziato a lavorare negli anni ’90 e successivi. Me compresa. I giovani d’oggi che si pongono il dubbio se riceveranno mai la pensione…. Ebbene sì, probabilmente non prima dei 70 anni e forse oltre! Il regime applicato sarà il contributivo, ma temo che non porterà grandi assegni pensionistici» spiega Celeste Collovati dello studio legale Direttissimo, esperta anche di questioni previdenziali.
La discontinuità pesa più del contributivo
«Il calcolo contributivo di per sé non è meno conveniente di quello retributivo. In ciascuno dei due sistemi vi sono vantaggi e svantaggi. La vera differenza sta nel lavoro: sono la durata, la continuità del lavoro e la retribuzione percepita a condizionare anche la qualità della pensione» chiarisce Alessandra Servidori, componente Consiglio di Indirizzo CIPESS (Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile) del Presidente del Consiglio e del Governo, e docente di politiche del welfare all’università di Bologna.
In pensione a 70 anni?
È la prima domanda che ci si pone se si è entrati nel mondo del lavoro dopo il 1996. Si tratta di chi all’epoca aveva circa 25 anni e oggi ne ha all’incirca 50. In questa categoria rientrano sia i lavoratori dipendenti o che comunque hanno avuto un percorso “lineare”, senza periodi di interruzione lavorativa, sia coloro che invece hanno firmato contratti a tempo determinato o hanno prestato servizio sotto forma di collaboratori, senza continuità. A fare un esempio è Antonello Orlando, esperto della Fondazione Consulenti del Lavoro: «Supponiamo che una persona nata nel 1976 abbia iniziato a lavorare nel 1996: potrà accedere alla pensione di vecchiaia all’età di circa 69 anni (età adeguata ad aumenti derivanti dalla speranza di vita) oppure alla pensione anticipata intorno al 2039/2040 (a seconda del sesso). Nel secondo caso, invece, sarà più difficile raggiungere i 20 anni di contribuzione minima richiesti per l’accesso alla pensione di vecchiaia».
Si vive di più, si lavora di più
A complicare la situazione c’è l’aspettativa di vita media, che è maggiore rispetto a quella delle precedenti generazioni, ma che spinge anche ad allungare la vita lavorativa e quindi a spostare l’età pensionabile. Se nel 1976 la speranza di vita era di 79,9 anni, nel 2019 è arrivata a 86 anni. È vero che la pandemia Covid ha “tagliato” oltre 1 anno, portando l’età media a 84,9 anni, ma oggi si è pur sempre di fronte alla prospettiva di dover lavorare più a lungo. «Più si allunga l’aspettativa di vita, più l’età in cui si va in pensione si allontana e si rischia di lavorare per più anni e non ricevere un assegno cospicuo. Facendo un esempio concreto, un lavoratore della mia generazione, circa 30 anni, se versa contributi da quando ne ha 25, lo stipendio crescerà del 1,5% annuo e il PIL dello 0,3%. Questi potrà verosimilmente andare in pensione con un assegno che sarà circa la metà del suo ultimo stipendio e come età forse anche oltre i 70 anni» spiega Collovati.
Il problema dei “buchi contributivi”
Che le pensioni dei giovani di oggi saranno più basse di quelle di padri e nonni, sembrano esserci pochi dubbi, tanto che qualcuno si è spinto a tradurre in cifre: oggi chi va in pensione prende circa il 60% dell’ultimo stipendio, contro l’80% delle due generazioni precedenti. A ciò va aggiunto il caso dei “buchi contributivi”: per esempio, se ci sono stati uno o più periodi di inattività (e quindi di mancata contribuzione), l’assegno pensionistico potrebbe scendere persino al 40/45%, cioè meno della metà dell’ultima busta paga. «Poiché nel retributivo la pensione si calcola sulla media degli ultimi 10 anni di retribuzione, non incidono anni precedenti in cui il soggetto ha avuto retribuzioni basse, mentre nel contributivo si sommano tutte. Il guaio del contributivo è che si applica a generazioni di lavoratori precari» conferma Servidori.
Quanto pesa l’uscita anticipata dal lavoro
Una situazione analoga si può avere in caso di uscita anticipata dal mondo del lavoro: «Se il lavoratore è costretto a lasciare anticipatamente il lavoro per cessazione attività (cosa non infrequente di questi tempi) la poca contribuzione versata lo costringerà a percepire un assegno ancora più esiguo – prosegue l’esperta – Poi va considerato anche un altro aspetto: i continui blocchi delle rivalutazioni (cioè l’adeguamento al costo della vita che è certamente in aumento) della pensione, che vengono istituiti con una cadenza periodica, come abbiamo visto dalla Legge Monti (2011 in poi): di questo passo porteranno anche a tagli ulteriori della pensione, il cui importo finale rischia di diventare sempre più esiguo» spiega Collovati.
Perché è importante l’integrazione al minimo
Come se non bastasse, i lavoratori più giovani non hanno la cosiddetta “integrazione al minimo”. Significa che se la pensione non arriva a 2,8 volte l’assegno sociale (che oggi è pari è 1.289 euro) chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996 non può avere accesso alla pensione anticipata, che oggi è possibile da tre anni prima dell’età pensionabile, quindi a 64 anni invece che attendere i 67. Se la pensione, poi, non arriva a 1,5 volte l’assegno sociale (690 euro), non è possibile neppure usufruire della pensione di vecchiaia: non resterà che attendere di aver raggiunto la quota contributiva necessaria, uscendo dal mercato del lavoro solo 4 anni dopo, il che significa oggi a 71 anni.
Il contributivo è da correggere
«È un meccanismo tale per cui l’Inps, entro alcuni limiti reddituali, riconosce una prestazione economica che varia ogni anno, di solito, a chi percepisce una pensione molto esigua al di sotto del minimo vitale. Ma ne hanno diritto solo coloro che hanno pensioni liquidate con il sistema retributivo o col sistema misto (con prima contribuzione precedente al 1° gennaio 1996) – spiega Collovati – Invece le pensioni liquidate con il sistema contributivo (con prima contribuzione dopo il 31 dicembre 1995) non godono di tale beneficio». «Teniamo presente che in tutti i sistemi è richiesto un minimo, senza il quale non si ha diritto alla pensione a meno che non si prosegua con i versamenti volontari fino a raggiungere quel minimo. Il problema è che il sistema di integrazione non è previsto per il sistema contributivo e questo è un limite che andrebbe corretto» commenta Servidori
Opzione donna che fine farà?
In tutto questo che fine farà Opzione donna? Si continua a parlare di agevolazioni per le lavoratrici, specie se madri, ipotizzando un’uscita dal lavoro anticipata per chi ha avuto figli, ma cosa potrebbe cambiare? «Ad oggi ancora la conferma dell’Opzione donna è in dubbio e qualora venisse prorogata, sarebbero comunque previste alcune modifiche. Fino ad ora con tale regime, possono uscire anticipatamente dal lavoro le lavoratrici dipendenti che al 31.12.20 hanno 58 anni d’età e 35 anni di contribuzione; oppure le lavoratrici autonome a 59 anni e sempre 35 anni di contributi versati. Da quanto sembra – ma ciò, ripeto, dovrà essere confermato e definito con la Legge di Bilancio ’22 – l’idea è quella di alzare la soglia anagrafica sia per le lavoratrici dipendenti, sia per le autonome, rispettivamente a 59 e 60 anni che soddisfino tali requisiti al 31.12.2020» dice l’avvocato Collovati. «I requisiti sono comunque molto elevati per una donna a meno che non sia una dipendente pubblica. Poi la penalizzazione è forte perché il calcolo è interamente sottoposto al regime contributivo. Una possibile azione positiva e sussidiaria potrebbe essere valorizzare con contribuzione aggiuntiva e figurativa il periodo della maternità (due anni), per riconoscere il valore sociale della maternità» conclude Servidori.